Capitolo Secondo
LA CITTÀ DELLE TORRI
L'ultima cosa che ricordo di quella notte sulle montagne del New Hampshire fu d'aver mosso un passo oltre la soglia dell'astronave discoidale, ed a questo punto la mia memoria s'interrompe bruscamente. Poi m'accorsi d'essere disteso e compresi che mi stavo risvegliando da un lungo sonno ristoratore; ma, nell'aprire gli occhi, m'aspettavo di vedere le familiari pareti della mia stanza all'ostello delcollege. Scorsi invece qualcosa di completamente diverso.
Giacevo su un lettino duro come un tavolaccio, al centro d'un locale circolare il cui soffitto era alto appena poco più di due metri. Sulla parete rotonda s'aprivano cinque finestrelle così strette che non avrebbero lasciato passare un bambino, e che dalla forma avrei detto fossero le feritoie d'un castello medievale. Daesse entrava una luce diurna molto viva e, tirandomi su a sedere con un grugnito, osservai il resto dell'arredamento.
Non c'era molto da vedere. Alla mia destra era appeso un arazzo di lana spessa su cui era ricamata una scena di caccia, che osservai sbattendo le palpebre. I cacciatori erano armati di lunghe picche, montavano in sella a grossi uccelli simili a rapaci e stavano dando addosso a una sorta d'enorme cinghiale fornito di zanne affilate come scimitarre. A parte il soggetto di stampo fantasioso, lo stile era d'un genere pre-rinascimentale, bucolico ed ingenuo ma non spiacevole.
Dalla parte opposta faceva bella mostra di sé uno scudo tondeggiante con sopra applicate due lance incrociate. Dal tipo avrebbe potuto esser scambiato per una classica egida greca, ed intorno all'umbone giostravano figure stilizzate che non avrebbero sfigurato su un antico vaso ellenico. Il disegno centrale mi risultò incomprensibile, e non seppi decidere se fosse un anagramma o una fantasia d'artista. Sullo scudo era appeso anche un elmo, o forse farei meglio a definirlo un cimiero, visto che lo stesso Achille non avrebbe esitato a metterselo in testa.
Quell'insieme di oggetti ispirava una bellicosa fierezza, ma dava anche l'impressione di non esser lì solo per ornamento, un po' come le armi che i Minuteman tenevano appese al muro per esser pronti ad usarle nel tradizionale spazio d'un minuto. Notai che sembravano tenute lustre e pulite dal continuo contatto di mani adatte ad impugnarle, e m'incuriosì la forma dell'elmo, fornito di una fenditura ad «Y» per gli occhi, mentre naso e bocca erano scolpiti nel metallo del coprifaccia.
A parte questi oggetti, un paio di blocchi di pietra che avrebbero potuto essere seggiole e un tappetino, il locale non conteneva altro. Muri e soffitto mi parvero in solido marmo bianco di buona qualità. Ma non c'era nulla che avesse l'aspetto d'una porta d'ingresso. Scesi dal piano su cui giacevo, constatando che si trattava d'un pesante tavolo anch'esso di marmo, e mi accostai ad una feritoia. Il cielo che vidi all'esterno era d'un azzurro assolutamente identico a quello della Terra, ed in esso brillava un sole che soltanto le dimensioni leggermente superiori distinguevano da quello a cui ero abituato. Era comunque una stella gialla della stessa classe spettrale. La mia prima impressione fu che mi trovavo ancora sulla vecchia e cara Terra, e che l'apparente maggior grandezza del sole era un'illusione ottica.
Trassi un profondo respiro e i miei polmoni si riempirono di buon ossigeno, cosa che mi confortò nella sicurezza di non esser stato trasportato su chissà quale pianeta lontano. L'atmosfera era quella giusta, riflettei fra me. Nello stesso tempo, però, ciò che i miei occhi vedevano mi stava facendo di nuovo cambiare idea, perché fuori da quella feritoia si stendeva un centro abitato d'aspetto assai poco terrestre. C'era un gran numero di torri cilindriche alte e dalla cima piatta, variamente colorate, traforate da strette finestrelle e collegate fra loro da una quantità di ponti ad arco leggeri e di bell'effetto. All'apparenza l'edificio in cui m'ero risvegliato aveva una struttura in tutto simile.
Il mio campo visivo non mi consentiva di scorgere il suolo, ma in distanza vidi colline ricoperte di vegetazione verde che avrebbe potuto essere erba o macchia molto fitta. Meravigliato, e chiedendomi se non fossi finito in una situazione pericolosa o sgradevole, tornai presso il tavolo.
Passai una mano sulla superficie di freddo marmo, ma intanto mi stavo accorgendo che in quel luogo c'era un'altra cosa diversa e inaspettata: il mio peso corporeo non era più lo stesso. Saltai al di là del tavolo e l'altezza del mio balzo fu superiore a quella che le mie gambe mi avrebbero normalmente dato. Feci qualche rapido passo, tentai ancora un saltello, e il mio stupore si trasformò in certezza: la gravità che mi attraeva al suolo era alquanto minore di quella terrestre.
Dunque m'avevano trasferito su un mondo meno denso o più piccolo del mio, il quale doveva ruotare attorno al sole ad una distanza che valutai sui 120 milioni di Km. Scartai subito l'ipotesi che fosse Venere: ciò che mi circondava non era certo un inferno d'anidride carbonica surriscaldata. Tuttavia ne sapevo abbastanza di astronomia per decidere che quella stella era quasi certamente il Sole.
Un'altra cosa mi avevano fatto: ero stato spogliato di tutti i miei vestiti ed ora indossavo una tunichetta rossa stretta alla vita da una cintura di cuoio giallo. Qualcuno doveva essersi preso la briga di farmi un bagno, perché la fanghiglia di cui m'ero impiastricciato sulle White Mountains era sparita. L'anello sul cui castone era incisa la «C» non mi era stato tolto, anzi me l'avevano infilato all'anulare della mano destra.
Più che mai sconcertato e anche un po' impaurito, sedetti sul tavolo e cercai di rimettere ordine nei pensieri per trarne qualche solida deduzione. Non venni a capo di niente. Mi sentivo come può sentirsi un bambino in fasce trasportato nel mezzo di un Luna Park, assalito da un universo d'immagini e di sensazioni a cui è difficile dare un significato.
Un rumore alle mie spalle mi fece trasalire, e vidi che nella parete s'era aperta una porta nascosta. Sulla soglia c'era un individuo di mezza età, robusto e rosso di capelli, che venne subito dentro. Non avevo saputo cosa aspettarmi, e fui sollevato nel vedere che su quel pianeta abitava gente del tutto umana. Anche lui indossava una tunichetta della stessa foggia, con cintura e sandali di cuoio. Sorrise amichevolmente e mi appoggiò le mani sulle spalle, non meno che se fossi stato un suo vecchio e affezionato conoscente.
«Tarl, figlio mio!», esclamò.
«Ma cosa...» riuscii appena a balbettare, stupefatto.
«Sono tuo padre, ragazzo.»
L'uomo rise, afferrandomi una mano e stringendola fra le sue, divertito dalla meraviglia che dovevo aver dipinta sulla faccia. Mi chiese se m'ero svegliato bene ed io risposi di sì. La sua faccia mi era nuova e sconosciuta, ma io ero uno straniero su un mondo che non era la Terra e faticavo a convincermi della realtà della situazione, eppure quello era mio padre.
«Come sta la mamma, figliolo?»
«Morta e sepolta. Un bel po' di tempo fa,» borbottai.
«Ah!» Corrugò le sopracciglia, scosse il capo e disse: «Mi dispiace molto. Le volevo bene davvero. Fra tutti voi mi era la più cara.»
Attraversò la stanza e si mise a guardare fuori da una finestrella, con atteggiamento fra addolorato e pensoso, ma io mi chiedevo quanto poteva esserci d'autentico in quella sofferenza. Non avevo nessuna intenzione di provare affetto e simpatia per lui. Aveva lasciato mia madre a lottare con la miseria in un sobborgo di Bristol, e per me non aveva fatto altro se non appiopparmi un nome insolito. Adesso cos'aveva da mettersi a ruminare ricordi lacrimevoli? Che motivo aveva di compiangere una donna per cui proprio lui era stato fonte di infelicità? Inoltre non mi era piaciuta troppo quella sua frase «Fra tutti voi mi era la più cara». Cosa intendeva dire? non avevo nessuna voglia di saperlo.
Ma intanto che dicevo questo a me stesso, sentivo anche il desiderio d'avvicinarmi a lui e di mettergli una mano su una spalla, di toccarlo e di fargli capire che infine non ce l'avevo con lui, perché fra me e quell'uomo c'era un legame di sangue che era un legame di vita, e d'un tratto m'avvidi di avere gli occhi umidi. Qualcosa di oscuro si muoveva in me, riaffioravano memorie che non sapevo di avere: il ricordo d'un volto di donna dolce e gentile e di due braccia che mi stringevano con amore. E accanto a quello di lei un altro viso, mascolino e sorridente. Mi morsi le labbra.
«Padre,» sussurrai.
Lui si raddrizzò e si voltò, fissandomi senza aprir bocca. Aveva un'espressione indecifrabile, e non potei capire se era quella di un uomo che ha appena ingoiato qualche lacrima, ma certo c'era una sorta di angoscia sul suo volto severo. Guardandolo dritto negli occhi, compresi che di lui non sapevo proprio niente, e che forse m'ero sbagliato nel giudicarlo, perché il modo in cui mi osservava esprimeva un affetto silenzioso su cui non potevo ingannarmi.
«Ragazzo mio... Tarl,» disse sottovoce.
Un momento dopo lo stavo abbracciando forte, piangendo, ed anch'egli mi teneva stretto a sé senza nascondere le lacrime. Più tardi avrei appreso che quello sfoggio d'emozioni non era considerato affatto sintomo di sdolcinatezza nel mondo in cui ero stato portato. Anzi, al contrario di quanto accade con l'ipocrito moralismo terrestre, esprimere con pienezza le proprie emozioni veniva giudicata cosa degna di rispetto e di stima.
Quando mi lasciò, si asciugò gli occhi con un gesto calmo, studiandomi con un sorriso simile ad una smorfia triste. «Non la dimenticherò, credimi. Non fu per mia volontà che lasciai tua madre.»
Rimasi zitto. Come se avesse intuito il mio groviglio di emozioni, lui tornò serio. La sua voce cercò di suonare brusca:
«Ho apprezzato molto il tuo regalo, Tarl Cabot,» dichiarò.
Visto poi che non capivo, disse ancora: «Voglio dire la terra. Una manciata del mio suolo natale.»
Scossi appena il capo. Volevo che continuasse a parlare, che rispondesse alle cento domande che mi frullavano nella mente, che mi spiegasse quali misteri c'erano dietro la sua e la mia presenza lì, dietro l'esistenza stessa di quel pianeta tanto simile alla Terra, e soprattutto per quale motivo ero stato prelevato dal mio pianeta e dalla mia vita.
«Devi essere piuttosto affamato, vero?», disse invece lui.
«Affamato di notizie, padre. Cosa sto facendo qui? E dove...»
«Naturalmente, certo,» m'interruppe. Poi sorrise. «Ma intanto ti conviene mangiare un boccone. Mentre ti riempi lo stomaco parleremo di tutto questo. Va bene?»
Batté le mani due volte e la porta, che s'era chiusa, si riaprì nuovamente. Spalancai gli occhi. Nella cornice d'ingresso era comparsa una ragazza bionda e decisamente bella, una giovane fata dagli occhi blu sulla quale fui costretto ad inchiodare uno sguardo d'ammirazione. Indossava una tunichetta alla schiava quasi indecente sotto cui s'indovinava un corpo delizioso, ed il suo unico ornamento, sempre che si trattasse di un ornamento, era un collare metallico che le circondava il collo aggraziato. Depose sul tavolo un vassoio colmo di cibi assortiti ed uscì svelta com'era entrata.
Mio padre non l'aveva degnata di uno sguardo, ma aveva notato la luce che s'era accesa nelle mie pupille.
«Se la vuoi, stanotte potrai averla,» disse.
Non fui sicuro d'aver capito bene cosa volesse dire, e tacqui. Lui mi indicò uno dei sedili di pietra accostati al tavolo e insisté perché cominciassi subito a mangiare. Era cibo semplice, che dapprima esitai ad assaggiare perché avrei voluto piuttosto parlare e chiedere spiegazioni, ma l'appetito l'ebbe vinta e mi portai alla bocca un cosciotto succulento, la carne sembrava avere il caratteristico sapore della cacciagione, ed era stata rosolata sulla fiamma viva. La frutta, che consisteva in grappoli d'uva e pesche non troppo dissimili da quelle terrestri, era succosa e fresca come appena colta. Mi versai un boccale di vino e lo trovai frizzante, molto alcolico e migliore per ubriacarsi in allegria che per accompagnare un pasto. Più tardi mi avrebbero insegnato che si chiamavaKa-la-na, una qualità locale. Ma, nel frattempo, mio padre aveva finalmente deciso di cominciare a parlare.
«Il nome di questo pianeta è Gor,» disse. «E la stessa stella a cui ruota intorno è il nostro vecchio Sole. Come distanza, ci troviamo più o meno a metà fra l'orbita di Venere e quella della Terra. Il nome Gor ha un preciso significato. Qui abbiamo parecchie lingue diverse, ma in ognuna esso significaPietra della Casa, o anchePietra del Focolare.»
«Gor,» ripetei io, annuendo.
«Nei paesetti di campagna sparsi dappertutto,» spiegò lui, «ogni casupola viene edificata attorno ad un centro costituito da una pietra piatta, sulla quale è inciso il nome di famiglia o lo stemma del fondatore della comunità, e perciò essa viene chiamata laPietra della Casa. Si tratta di un simbolo di sovranità territoriale, e in effetti ogni membro della comunità domina su un territorio sovrano che gli appartiene di diritto.»
«Capisco,» dissi, addentando una pesca.
«Col passare del tempo, moltePietre della Casa finirono con l'essere il centro di vere e proprie città. Nei villaggi esse si trovano in quella che è tradizionalmente la piazza del mercato, mentre nelle grandi città l'uso vuole che siano tenute sulla cima della torre più alta. Dunque tu comprendi che per la gente laPietra della Casa è gravida di significati mistici e simbolici, un po' come le bandiere nazionali sulla Terra.»
Dicendo questo si era alzato ed aveva preso a camminare avanti e indietro per il locale, con lo sguardo acceso da una vivacità che lì per lì non sapevo spiegarmi. In seguito appresi che quando un abitante di Gor parla di questo argomento, ed in particolare della suaPietra della Casa, lo fa sempre stando in piedi e in tono un po' enfatico. Questo, come altre forme d'orgoglio campanilistico, è un costume che ha le sue origini nel lontano passato d'un pianeta i cui codici d'onore di stampo spesso barbarico sono rigidamente rispettati.
«Queste pietre, ragazzo mio, sono quasi tutte diverse come forma, colore e altezza, e molte di esse sono scolpite in modo assai complesso. Alcune delle maggiori città hannoPietre della Casa piccole e all'apparenza insignificanti, ma d'incredibile antichità. Le più rispettate risalgono all'epoca lontana e dimenticata in cui l'abitato era ancora un borgo primitivo, e alcune di esse appartenevano addirittura a condottieri nomadi che le poggiano là dove stabilivano il loro accampamento. Le tradizioni di questo genere sono importantissime.»
Mio padre fece una pausa e si volse a guardare all'esterno. Per un paio di minuti restò davanti alla finestra, volgendomi le spalle, poi si schiarì la gola e riprese il discorso là dove l'aveva lasciato:
«Nel luogo in cui un uomo depone la suaPietra della Casa c'è il suo focolare e, legalmente, quel terreno diventa sua proprietà privata. Come immaginerai, ciò può dare origine a dispute. La terra può essere buona o può non esserlo ma, quando è ben fertile, capita che la si debba difendere con la spada dalla cupidigia di eventuali vicini forti e minacciosi.»
«Con la spada?», domandai, stupito.
«Ma sicuro!», esclamò lui, sorridendo come se avesse detto la cosa più naturale del mondo. «Ah, vedo che hai proprio bisogno di imparare anche le cose più elementari della vita su Gor, ragazzo. Qui esiste quella che potremo chiamare una grande quantità di dinastie, ognuna imperniata sulla propriaPietra della Casa. Le questioni di proprietà e di confine, inconciliabili in altri modi, vengono regolate con la spada. Chi vuole guadagnarsi un pezzo di terra fertile, dev'essere disposto a battersi, prima per conquistarselo e poi per difenderlo.»
«Un giorno o l'altro,» riprese dopo una pausa, «ti mostrerò la mia piccolaPietra della Casa, che tengo in camera mia. Contiene una manciata del buon suolo della Terra, che portai con me quando venni per la prima volta su questo pianeta.» Mi fissò acutamente, e poi dichiarò con estrema calma: «Aggiungerò ad essa quella che mi hai portato tu, e un giorno questa terra ti apparterrà... sempre ché tu viva abbastanza da guadagnarti la tuaPietra della Casa, beninteso.»
Io mi forbii la bocca col dorso di una mano e mi alzai. Lo sguardo di mio padre si era fatto offuscato e distante.
«Il sogno ricorrente di ogni conquistatore o uomo di stato è quello di possedere laSuprema Pietra della Casa, la pietra che gli dà la potestà sull'intero pianeta di Gor,» disse senza guardarmi. «Si racconta che laSuprema Pietra della Casa sia non dissimile da tante altre, ma nessuno che io conosca l'ha mai vista. Si trova nell'Inviolabile,un luogo tanto sacro quanto irraggiungibile, ed è il simbolo su cui si fonda il potere dei Re-Sacerdoti, che risiedono là.»
«Chi diavolo sono i Re-Sacerdoti?», chiesi.
Mi fissò improvvisamente corrucciato, quasi che gli sembrasse d'aver già detto più di quanto non desiderasse. Per qualche minuto né lui né io parlammo.
«Non hai torto,» borbottò infine, ritrovando il sorriso. «Credo che dovrò parlarti anche dei Re-Sacerdoti. Ma adesso torniamo agli argomenti più immediati, altrimenti non potrai capire ciò che dico. Sediamoci.»
Quando ci fummo sistemati sui sedili di pietra, ciascuno a un lato del massiccio tavolo, riprese ad illustrarmi la realtà di quel mondo con parole metodiche e ponderate.
Mio padre si riferiva al pianeta Gor chiamandolo anche la Contro-Terra, prendendo quest'espressione dagli scritti di certi matematici post-pitagorici che avevano per primi speculato sull'esistenza di un tale mondo. Abbastanza significativo trovava il fatto che una delle parole di Gor per indicare il Sole fosse Lar Torvis, ovverosia il Fuoco Centrale, termine che quei matematici usavano per definire la posizione del Sole rispetto a tutti gli altri corpi celesti. L'espressione popolaresca era invece Tar-tu-Gor, che significa laLuce sopra la Pietra della Casa. Fra la gente comune esisteva una setta di adoratori del Sole, il numero dei quali era però insignificante se paragonato a quello di coloro che veneravano invece i Re-Sacerdoti. Tali personaggi venivano temuti e adorati come degli Dèi, e perfino dalla bocca dei più forti guerrieri si potevano udire, in situazioni di pericolo, preghiere e invocazioni rivolte ad essi.
«I Re-Sacerdoti,» mi rivelò mio padre, «sono eterni e immortali. O quantomeno questa è la credenza più diffusa.»
«Ed anche tu lo credi?»
«Non lo so.» Alzò le spalle. «Forse è davvero così.»
«Ma cosa sono, in realtà?»
«Degli Dèi, probabilmente.»
«Vuoi prendermi in giro?»
«No di certo. Ti sto riferendo ciò che pensa la gente. Del resto non è forse vero che al di là della vita e della morte c'è qualcuno o qualcosa di trascendentale?»
Visto che restavo in silenzio, riprese: «Per quel che valgono le mie supposizioni, potrei credere che i Re-Sacerdoti siano umani in tutto, o addirittura più che umani. Oppure potrebbero essere creature umanoidi. Comunque sono esseri in possesso di una scienza e di una tecnologia in confronto alla quale quella terrestre è poco più che alchimia medievale.»
Quest'ultima dichiarazione mi parve almeno fondata, visti i fatti che mi avevano appena avuto come protagonista e vittima insieme. Sulle White Mountains mi ero trovato in presenza di forze all'apparenza incomprensibili, che tuttavia potevano essere spiegate con l'esistenza di una capacità scientifica superiore a quella umana. Sia il terrore che m'aveva offuscato la mente, sia il potere da cui ero stato di nuovo trascinato al campo, sia i disturbi della bussola, dovevano essere stati originati da strumenti assai evoluti. La nave discoidale era chiaramente il prodotto d'una scienza avanzatissima. Tutto ciò che m'era accaduto trovava la sua origine negli strumenti tecnici di cui erano forniti i dominatori di Gor. Ma, più che spiegarmi i fatti, questo creava in me altre domande. Ero teso nello sforzo di convincermi che tutto quanto non era frutto d'un sogno.
«I Re-Sacerdoti hanno stabilito questa loro sede,l'Inviolabile, nel mezzo delle montagne di Sardar, una vastissima zona montagnosa e accidentata nella quale chi ci tiene alla vita non si azzarda a penetrare. È una terra considerata tabù, e piena di pericoli sconosciuti. Se pure qualcuno è riuscito ad addentrarvicisi, non è mai tornato indietro a raccontarlo. «Qui lo sguardo di mio padre si fece ancora lontano e cupo, come se vi fossero cose che preferiva dimenticare. Dopo un breve silenzio riprese: «Si ha notizia di gruppi di idealisti o di ribelli che in varie epoche hanno intrapreso l'ascesa di quelle gelide e dirupate montagne, lasciandoci la vita fin dall'inizio. Non ci sono piste né sentieri e, osservata dall'esterno, la zona appare piena di barriere insuperabili. Membra e frammenti corporei di fuorilegge e di fuggiaschi che avevano cercato rifugio sulle Montagne di Sardar sono stati ritrovati in pianura, spesso assai lontano, come rosicchiati e spezzati da denti o becchi di qualche animale.»
Mi versai ancora un boccale di vino, senza saper cosa pensare. Solo allora mi accorsi che l'avevo quasi finito, bevendo distrattamente mentre ascoltavo. Mi sentivo già un tantino alticcio, e feci alcuni lunghi respiri per schiarirmi le idee.
«Qualche volta,» disse lui a bassa voce, «capita che un disperato o un vecchio non ancora stanco della vita tenti l'impresa nella speranza di scoprire laggiù il segreto dell'immortalità. Ma se mai uno di loro l'ha davvero trovato, certo non è poi tornato a vantarsene né si è mai più rivisto nella Città delle Torri. Qualcuno ha azzardato l'ipotesi che i più fortunati di costoro, una volta raggiuntol'Inviolabile, divengano essi stessi Re-Sacerdoti. Ma chi può saperlo? La mia opinione, così come l'opinione del popolo è che, cercare di svelare i segreti dei Re-Sacerdoti, significhi sempre morire e per di più in un modo atroce.»
«Ma è solo una tua idea. Non è così?»
«Infatti. Ognuno è libero di costruirsi le congetture che vuole,» ammise lui, alzando le spalle.
Dai fatti e dalle leggende che poi mi raccontò brevemente, conclusi che i motivi per considerare divini i Re-Sacerdoti non mancano. Il loro potere era enorme, e consentiva loro di distruggere o di tener sotto controllo chiunque e dovunque. Si diceva che fossero al corrente di ogni fatto che accadeva sul pianeta, ma che nello stesso tempo non si degnassero di far troppo caso alle vicende umane.
Mio padre si disse certo che fra le loro montagne si dedicavano a coltivare una sorta di felicità o di beatitudine artificiale, e che tutto il resto appariva loro privo di vera importanza. Erano, così affermò, divinità solide e reali ma remote, lontane dalle passioni e dalle sventure che assillavano l'esistenza quotidiana dei mortali. Per la verità queste mi facevano l'effetto di fantasie popolaresche, perché la loro ricerca della beatitudine stonava molto col destino che riservavano a chi osava avvicinare la loro roccaforte. Trovavo difficile considerarli per metà santoni e per metà spietati uccisori di uomini.
«Questo loro disinteresse non è assoluto, perché c'è un campo in cui interferiscono sempre nelle faccende umane. Si tratta della tecnologia. I Re-Sacerdoti ne impediscono lo sviluppo, concedendone un uso limitato agli Uomini delle Montagne. Può sembrarti inspiegabile, eppure su Gor esistono due civiltà tecnologiche diversissime e separate: da una parte quella immensamente evoluta dei Re-Sacerdoti, e dall'altra quella umana le cui più terribili armi da guerra sono l'arco e la lancia. Noi, comuni esseri umani, non possediamo neppure mezzi di trasporto e di comunicazione: niente civiltà meccanica e niente elettricità.»
«Per contro,» proseguì con un sospiro, «potrai renderti conto che, in alcune cose, noi mortali e gli Uomini delle Montagne siamo abbastanza progrediti, ad esempio in agricoltura, in medicina ed in altre scienze di minor conto. Suppongo che ora ti domanderai perché mai qualcuno non cerca di porre rimedio a questo stato di cose, magari cercando di introdurre armi da fuoco o veicoli a motore. Non sono gli uomini capaci e intelligenti che mancano, qui su Gor.»
«E allora quali difficoltà ci sono?»
«Molto semplice, ragazzo mio. Non solo il progresso tecnologico è proibito, ma esso viene drasticamente impedito con l'uso spietato della forza. Chi ha provato a costruire macchine appena un po' sofisticate se le è viste distruggere... bruciare, andare in fiamme d'un colpo. E ci ha rimesso la vita.»
«Bruciare? Intendi dire come la busta di metallo azzurro?»
«Proprio così. È quella che viene chiamata laMorte di Fuoco. I tentativi di creare armi o macchinari ci sono stati, ed i loro autori sono stati spesso capaci d'evitare per un poco quel destino, talvolta per più di un anno. Ma, prima o poi, laMorte di Fuoco è sempre piombata su di loro, infallibile e tremenda. Io stesso l'ho visto accadere, una volta,» terminò, accigliato.
Era chiaro che non gli avrebbe fatto piacere darmi maggiori ragguagli, così cambiai discorso: «Cosa puoi dirmi dell'astronave che mi ha portato qui? È anch'essa un prodotto della tecnologia dei Re-Sacerdoti?»
«Ne dubitavi?» Mi sorrise. «Tuttavia non credo che a pilotarla fosse un Uomo delle Montagne.»
«Un Re-Sacerdote, allora?»
«No, neppure. Senza poterne esser certo, direi che era controllata a distanza, dalle Montagne di Sardar. Si dice che la cosa avvenga a questo modo, nelViaggio dell'Acquisto.»
«Dell'Acquisto?»Inarcai un sopracciglio. «Dunque sono stato acquistato?»
«Se ti piace dir così. La stessa cosa capitò a me molto tempo fa. Ed anche ad altri.»
«Ma tutto questo che scopo ha? Perché un individuo della Terra deve vedersi trasportato qui su Gor?»
«Gli scopi sono sempre diversi. Ciascun individuo per uno scopo,» tagliò corto lui.
Passò a darmi altre informazioni sul pianeta che mi trovavo sotto i piedi. Come raccontavano gli Adepti, ovvero coloro che fungevano da intermediari fra i Re-Sacerdoti ed i mortali, Gor in origine aveva fatto parte del sistema solare di un'altra stella, in uno di quei lontanissimi ammassi stellari che egli chiamò le Galassie Blu. I Re-Sacerdoti lo avevano tolto dalla sua orbita e portato a navigare nel cosmo alla ricerca di un'altra stella, e questa fantastica migrazione era già avvenuta più d'una volta.
La storia mi sembrava incredibile. Nell'universo le distanze intergalattiche sono inimmaginabili, ed anche alla velocità della luce richiederebbero periodi di tempo incommensurabilmente lunghi. Durante un tragitto del genere, nessun pianeta avrebbe potuto conservare una parvenza di vita sulla sua superficie, e se ciò era accaduto davvero, allora Gor era stato per miliardi e miliardi di anni una palla di ghiaccio morta fin nel più profondo delle sue viscere, senza neppure un'atmosfera.
Anche accettando per vera la cosa, si poteva fare un buon taglio a quelle fantasie e supporre che Gor fosse stato spostato nel nostro sistema solare da una delle stelle più vicine, come ad esempio Alpha Centauri. La distanza era sempre notevolissima ma, con uno sforzo d'immaginazione, fin lì ci arrivavo. In via teorica potevo anche ammettere che una scienza superumana potesse farlo e tutelare al contempo l'ambiente ecologico del pianeta, però non riuscivo a pensare a quali immensi mezzi fossero occorsi. Insomma, mi si stava dicendo che Gor era stato per lunghi periodi della sua storia una sorta di nave interstellare, ed io ero lì a lambiccarmi il cervello per cercare il modo di crederci.
C'era un'altra ipotesi che infine espressi a mio padre: quella che Gor fosse sempre stato all'interno del nostro sistema solare, ignorato e mai scoperto per qualche misteriosa ragione. Non ci credevo neppure io, e l'idea avrebbe fatto sghignazzare un astronomo terrestre, ma con mia sorpresa lui parve considerarla plausibile.
«Questa,» disse vivacemente, «è la cosiddetta Teoria dello Scudo Solare. Ed è il motivo per cui alcuni chiamano Gor laContro-Terra. Si basa sul fatto, praticamente accertato, che il pianeta ruota intorno al Sole con un'orbita e una velocità tale da restare sempre in congiunzione con la Terra, ovverosia col Sole in mezzo a far da scudo.»
«Scientificamente non è possibile crederci. Qualsiasi idiota di astronomo dilettante scoprirebbe subito la sua esistenza, deducendola dalle interferenze gravitazionali con le orbite degli altri pianeti,» affermai con sicurezza. «Plutone è stato scoperto proprio a questo modo, pur piccolo e lontanissimo com'è.»
«Tu sottovaluti la scienza dei Re-Sacerdoti, ragazzo mio,» sogghignò lui. «Esseri che sono stati capaci di spostare Gor su distanze intergalattiche, possono ingannare eventuali osservatori con l'uso delle tecniche appropriate.
«L'equilibrio gravitazionale all'interno del sistema solare deve risultare alterato per forza dalla presenza di Gor, e non vedo come se ne potrebbero mascherare gli effetti.
«I campi di gravità possono essere controllati. È mia opinione che i Re-Sacerdoti riescano a farlo senza difficoltà, annullando le ripercussioni che quello di Gor avrebbe sugli altri pianeti. E, se vuoi sottilizzare, non mancherebbero altri generi d'indizi che potrebbero rivelare la sua presenza. Ad esempio le onde radio. Ma credo che essi riescano in qualche modo a deformare la struttura dello spazio intorno a Gor. Del resto l'evidenza parla da sé: nessun astronomo terrestre ha mai sospettato che questo pianeta esista.»
Vedendo che gli sembravo ancora poco convinto, aggiunse: «Perfino le sonde inviate ad esplorare il sistema solare non hanno mai rivelato nulla, non è così? Naturalmente, tu ed io stiamo giocando con le ipotesi, perché nessuno sa cosa facciano in realtà i Re-Sacerdoti, né come, né perché. Ciò che possiamo vedere e dobbiamo accettare è il semplice fatto che Gor esiste. Comunque vi sono alcuni indizi rivelatori che sulla Terra avrebbero potuto meglio considerare.»
Lo fissai senza capire, mentre scolavo l'ultima goccia di quel vinello frizzante. «Vale a dire quali?»
«Certi segnali radio, emanati su una particolare banda di frequenza,» disse lui. La mia faccia perplessa lo fece ridere. «È chiaro che, dando per scontata l'impossibilità dell'esistenza di un pianeta nascosto dal Sole, eventuali segnali radio vengono attribuiti a perturbazioni e scariche dell'atmosfera solare, che già emette un inferno di segnali su ogni lunghezza d'onda. A nessun astronomo serio o meno serio passerebbe per il capo d'esporre una teoria che lo farebbe segnare a dito dai colleghi.»
«Ma di quali segnali in particolare stai parlando?»
Lui scosse la testa, come se non intendesse spiegarsi meglio. «Te l'ho detto. C'è sempre una differenza fra i dati portati da certe onde radio e i dati ricevuti da un apparecchio. E la differenza sta nel modo in cui uno scienziato decide di interpretarli. Tu conosci la vecchia Terra, e sai che nell'ambiente scientifico la cosa di cui si ha più terrore è il ridicolo.»
Detto ciò, mio padre s'alzò in piedi. Girò attorno al tavolo e mi prese per le spalle fissandomi con aria compiaciuta. Come ad un segnale, la porta si riaprì in silenzio, e subito dopo egli uscì a passi rapidi. Non aveva detto una sola parola sul destino che mi attendeva lì, qualunque fosse, né aveva chiarito il motivo per cui ero stato rapito e portato su Gor. Non s'era pronunciato su altre questioni misteriose; tanto per dirne una, la lettera e il suo contenuto. Aveva lasciato senza risposta almeno una dozzina di domande molto importanti e, con mio disappunto, aveva evitato ogni accenno alle vicende successe a lui, al punto che la sua persona e ciò che stava facendo su Gor mi restavano ancora praticamente sconosciute. Avrei voluto invece sentirlo parlare di sé, e sapere chi era l'uomo la cui eredità genetica portavo in ogni mia cellula. Fissai senza vederla la porta chiusa.
So bene che non posso costringere nessuno a prendere per oro colato ciò che sto mettendo per iscritto su quel che mi accadde sul pianeta Gor. Io stesso potrei commentare una storia simile con un sorriso scettico, dichiarandola frutto di fantasia. Tutto ciò che posso fare è fornire una testimonianza il più possibile obiettiva e di lasciarla poi a chi legge, in attesa di giudizio. In quanto al desiderio di segretezza dei Re-Sacerdoti, sono certo che essi non mi prenderanno in considerazione più di tanto come possibile spia, e confideranno - ahimè con ottime ragioni - che questo resoconto trovi spazio al più presso i lettori delle riviste di fantascienza. Ma posso consolarmi col pensiero che la loro noncuranza mi consente almeno di far giungere ad altri le mie parole.
Mentre scrivo so già che è così, poiché i Re-Sacerdoti non sembrano porre ostacoli alla stesura del manoscritto. Potrei domandarmi per qual motivo si comportano così, dopo tutti gli sforzi compiuti per celare l'esistenza dellaContro-Terra, ma credo che la risposta a ciò sia abbastanza semplice. Può darsi che essi siano umani, e che in loro vi sia quindi il difetto umano della vanità. Se così fosse, non devono sentirsi contrariati nel veder trapelare certi loro misteri in forma romanzata, e di vederli divulgati presso uno strato della popolazione terrestre già corazzato dallo scetticismo verso simili argomenti. O forse,nell'Inviolabile si coltivano anche l'umorismo e l'ironia. Inoltre, anche qualora un lettore volesse credere alla solida realtà di Gor, alViaggio dell'Acquisto e a tutto il resto, che mai potrebbe fare? Niente. E, anche nel peggior caso immaginabile, nulla impedirebbe ai Re-Sacerdoti di far allontanare di nuovo il pianeta dal Sole, in cerca di un'altra stella fra le tante adatte che vi sono nella galassia, per poi magari ripopolarlo con nuove forme di vita a loro piacimento.
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