Capitolo Primo
L'UOMO DELLA TERRA
Il mio nome è Tarl Cabot. Sospetto che questa sia una forma abbreviata o anglicizzata del cognome italiano Caboto, tuttavia, per quanto ne so, non ho alcun legame di parentela coi due fratelli veneziani che nel XV0 Secolo navigarono attorno al Nuovo Mondo sotto il vessillo di Sua Maestà Re Enrico VII.
A quell'epoca i miei antenati erano prosperi mercanti di stoffe che vive-vano nella città di Bristol, e da alcuni vecchi ritratti di famiglia posso af-fermare che anche allora noi Cabot appartenevamo a quella burrascosa sottospecie della razza umana che sono i rossi di malpelo. Ciò malgrado, ho spesso pensato che una discendenza potrebbe esserci, dato che, insieme a quei dipinti, hanno varcato il fiume del tempo alcuni ingialliti libri mastri risalenti al 1947, secondo i quali ci furono commerci abbastanza intensi fra la mia famiglia ed i mercanti veneziani che spingevano le loro belle galee fino alle nebbiose sponde di Albione. Sembra poi che Giovanni e Seba-stiano Caboto sostassero a lungo a Bristol, prima di levare le ancore alla scoperta del Canada e di Terranova, così non posso escludere che, oltre ai legami d'affari, ve ne fossero stati altri di diverso genere.
In quanto al mio poco comune nome di battesimo, se pensate che possa esser stato causa di rabbiose zuffe fra me ed altri ragazzini che alle ele-mentari lo trovavano ridicolo, non siete andati lontano dal vero. Del resto, avere occhi verdi come i gatti ed un disordinato cespuglio rosso in testa, non è mai stato indice di carattere mite e sottomesso, vuoi nell'Inghilterra del giorno d'oggi, vuoi nella Venezia dei fratelli Caboto. Riconosco però che è un nome insolito, almeno in questo nostro vecchio mondo, e tutto ciò che posso dirvi è che ad impormelo fu mio padre, il quale ebbe la spiace-
vole idea di scomparire dalla mia vita quand'ero ancora un bambino in fasce.
Di lui credetti sempre che fosse morto, o almeno così insisteva nel dire mia zia Gwendaline finché, una ventina d'anni più tardi, ricevetti una lette-ra decisamente strana recante la sua firma. Mia madre, della quale fra le righe di quella missiva egli dichiarava d'ignorare la sorte, era morta all'e-poca del mio sesto compleanno poco dopo che avevo cominciato a fre-quentare la scuola.
So che i dettagli biografici sono tediosi, perciò mi limiterò a dire che venni allevato da una zia che mi elargì tutto ciò di cui un ragazzino può aver bisogno, fatta eccezione per un affetto sincero, ma compensando do-verosamente questa lacuna con quotidiane ed appassionate prediche sui verbosi concetti del Bene e del Male. Non affermerò che avrei potuto farne a meno: quando mi prese a vivere con sé, ero un discoletto molto alto e robusto per la mia età, e già manifestavo una perniciosa fermezza nell'arte di cacciarmi nei guai.
Ma con grande sorpresa di mia zia Gwendaline e di quanti altri mi cono-scevano, fui un bravo scolaro, ed a vent'anni riuscii perfino a superare gli esami d'ammissione all'Università di Oxford. Fu in seguito a quest'evento che lasciai Bristol per la gaia e spensierata vita dello studente-lavoratore: non un solo minuto libero in tutto il giorno, niente ragazze, niente diverti-menti a parte una chitarra scassata che suonavo in camera mia con aria malinconica, ed una gran voglia che quel periodo noioso avesse termine. Mi laureai senza infamia e senza lode, confermando i truci sospetti di chi m'aveva accusato di non voler diventare un genio della finanza o un grande scienziato, e mi ritrovai con in mano una pergamena attestante che dovevo esser legalmente considerato una persona istruita.
Ero soltanto uno fra centomila, capace di tradurre qualche frase dal gre-co e di riconoscere il nome di un filosofo tedesco da quello di un faraone egiziano, e le mie prospettive non si potevano definire in alcun modo ecce-zionali. Non intendevo però ereditare il negozietto di mia zia dopo lunghi anni trascorsi a fare l'impiegato in qualche ditta di Bristol, e neppure pas-seggiare per Londra con una bombetta in testa mi affascinava troppo. Fu quindi grazie ad un impulso a cui forse l'eredità dei Caboto non era estra-nea, che decisi di attraversare anch'io l'Atlantico verso ovest.
Non mi proponevo certo chissà quali avventure, anzi era il contrario. Avevo ricevuto un'istruzione di stampo classico, e mi ero specializzato in Storia, cosicché feci domanda presso alcuni piccoli colleges americani per
essere assunto come insegnante di Storia Inglese. Ad Oxford ero riuscito a guadagnarmi il rispetto del Rettore mostrandogli con quale espediente fare in due soli colpi la sedicesima buca del suo campo da golf, e da lui ebbi lettere di raccomandazione una delle quali fece il suo effetto: un piccolo College del New Hampshire rispose favorevolmente, e si disse perfino disposto a pagarmi il biglietto d'aereo in classe turistica.
Ne fui così lieto che m'imbarcai sul primo volto in partenza senza quasi baciare le guance bagnate di soddisfatte lacrime di mia zia Gwendaline, ma in realtà avrei dovuto essere un poco stupito della rapidità con cui ero stato assunto. Ero un novellino come insegnante e una pietosa nullità come storico, e c'era da dubitare che nel New Hampshire avessero letto i miei articoletti sulla rivista ciclostilata della scuola. Molte centinaia di altri can-didati sfornati da Università americane avrebbero potuto dimostrare d'esser più qualificati di me per un posto sia pure tanto modesto, ed infatti m'ac-corsi poi che a farmi assumere era stato un titolo di studio che gli altri non avevano: io ero dotato di un accento che i genitori degli alunni avrebbero sentito con maggior compiacimento dalla bocca di un insegnante di Storia Inglese.
Quando scesi dal pullman che dall'aeroporto di Boston mi aveva portato in provincia di Concord, una tranquilla cittadina presso le White Moun-tains, scommisi con me stesso che in un luogo così ameno sarei stato fin dall'inizio preda di quell'attivismo sociale che si traduce in ponderosi co-cktails fra colleghi, in inviti a cene dove la padrona di casa governa con fermezza la scelta degli argomenti di conversazione, in riunioni mondane rese eccitanti dal fatto che grandi quantità di thè riescono, alla fine, a far brillare gli occhi a chiunque. Non mi sbagliavo perché, appena ebbi affitta-to due camere ammobiliate nell'ostello di proprietà del College, la mia vita cominciò ad istradarsi proprio su quei binari.
L'America e gli Americani non mi dispiacevano affatto. Per tutto il pri-mo semestre dell'anno scolastico ebbi però poco tempo per divertirmi, dato che dovevo trascorrere le serate ripassando la mia stessa materia per essere in grado di snocciolarla il giorno dopo ai miei allievi senza rischiare strani strafalcioni. Come ho detto, non ero un Pico della Mirandola in quella né in altre discipline accademiche, e il fatto d'avere l'accento britannico non era tutto quando si trattava di disquisire su fatti e personaggi dell'Inghilter-ra medievale. Fortunamente il Decano di Storia, un gentile e simpatico individuo sulla settantina, sembrava più interessato ad elargirmi saggi con-sigli che a controllare strettamente il mio operato, così non ebbi mai criti-
che e potei inserirmi nell'andamento scolastico senza problemi.
Quell'anno accolsi con sollievo l'arrivo delle vacanze natalizie, che du-ravano fino alla metà di Febbraio. Avevo fatto conto su quel periodo d'i-nattività che vi è fra i due semestri per aggiornarmi un po' sulla Storia Ri-nascimentale, in modo da esser sempre qualche passo più avanti dei miei allievi. Ma, dopo gli ultimi compiti in classe, i colloqui coi genitori e le interminabili sedute del Consiglio di Facoltà per compilare le pagelle, ero così stanco che mi prese il desiderio di fare una lunga escursione sulle White Mountains per vedermi intorno un po' di spazio aperto e illusoria-mente incontaminato.
Presi a prestito un equipaggiamento da campo completo di tenda, zaino e sacco a pelo, da uno dei pochi amici che m'ero fatto, un istruttore di ginna-stica che aveva la deplorevole mania di convertire gli ingenui alla bontà di faticosissime «passeggiate igieniche». Era un caro ragazzo, esperto nell'ar-te pratica di chiacchierare fra un lungo respiro diaframmatico ed una fles-sione delle braccia, e talvolta mi domando se sia ancora là a chiedersi cosa ne accadde del suo equipaggiamento e di Tarl Cabot. Ma di certo l'ammi-nistrazione del College non gradì quella faccenda, ed ancor meno fu Meta di dover sostituire uno degli insegnanti a metà dell'anno scolastico, perché nessuno rivide mai più Tarl Cabot tornare fra le mura di quella scuola.
Il mio amico istruttore mi accompagnò a passi scattanti per i primi dieci chilometri della stradicciola che s'addentrava fra le montagne, fino ad una vasta radura, e li ci lasciammo con la promessa che avremmo fatto coppia al torneo di bridge fra colleghi in programma per quel fine settimana.
La prima cosa che feci, fu di consultare saggiamente la bussola, avendo sentito dire che quella era una buona precauzione per non perdere la stra-da; ma, quando ebbi percorso qualche chilometro in un folto bosco di pini, mi accorsi che le mie nozioni di giovane esploratore avevano serie lacune perché, nell'intrico della vegetazione, la bussola mi diceva soltanto dov'era il nord e non dov'ero io.
La città di Bristol, dove avevo compiuto le mie uniche e giovanili espe-rienze di escursionista, sorge al centro di un'area totalmente urbanizzata, e quello era il mio primo incontro con l'immensità della natura selvaggia. I capi del college che m'ero lasciato alle spalle confinavano proprio con una delle vaste aree disabitate presso il confine del Canada, e cominciavo ad essere impensierito. Non avevo tuttavia motivo di preoccuparmi: da qua-lunque parte fossi diretto, ero sicuro che prima o poi avrei incrociato una strada o un fiume, e perdersi a così breve distanza dalla civiltà sarebbe
stato indegno anche di un inesperto.
Continuai la marcia scacciando quei pensieri, esilarato dal trovarmi a tu per tu con gli stessi grandi alberi e le rocce fra cui avevano strisciato i pel-lirosse che insidiavano i coloni bianchi in tempi ormai perduti. Forse la bella Pocahontas si era seduta a riposare su quella grande pietra liscia, e Girty il Rinnegato aveva spiato furtivo da quell'altura i movimenti delle Giubbe Rosse, o nella piccola radura in cui passavo, un astuto mercante aveva venduto acqua di fuoco e fucili scadenti a qualche tribù. Nel cammi-nare, sorridevo fra me, calpestando la neve bassa da cui spuntavano gli scuri tronchi dei pini secolari.
Per un paio d'ore ancora procedetti in salita finché, giunto al termine di un altipiano, decisi di fermarmi per riprendere fiato e addentare un panino. Il panorama era stupendo. Appena mi fui rifocillato, ripresi a dirigermi di buona lena fra le montagne. Adesso le lunghe passeggiate d'allenamento a cui il mio amico m'aveva costretto cominciavano a venirmi utili.
Al tramonto appoggiai l'equipaggiamento sotto il bordo di una bassa e larghissima piattaforma rocciosa e mi guardai attorno in cerca di un po' di legna per accendere il fuoco. Stavo aggirandomi a poca distanza dal mio campo improvvisato, quando un bagliore nel sottobosco attrasse il mio sguardo: ad un centinaio di metri davanti a me, nella semioscurità, brillava una luce dai fievoli toni azzurrini che non poteva avere nessuna ragione logica di trovarsi lì. Sbattei le palpebre perplesso, incapace di capirne la natura; poi mi mossi in quella direzione deciso a scoprire che razza di og-getto fosse quello.
Vidi ben presto che, in un tratto di neve sciolta, giaceva una piccola la-stra metallica rettangolare, larga quanto un foglio di quaderno e spessa solo pochi millimetri. La sfiorai e la sentii molto calda. Un istante più tar-di, i capelli mi si rizzarono sul collo e la bocca mi si spalancò scioccamen-te perché, scritto su quella sfoglia rilucente in arcaici caratteri inglesi, ave-vo letto tre parole incredibili:
«Per Tarl Cabot».
Doveva essere uno scherzo. Questa fu la prima cosa che pensai: il mio amico istruttore doveva avermi seguito e stava sicuramente meditando una bella burla ai miei danni. Aguzzai gli occhi nella boscaglia invasa dalle tenebre e lo chiamai più volte, non sapendo se mettermi a ridere o arrab-biarmi con lui. Ma nessuno rispose. Con un'imprecazione mi spostai fra i
rami dei pini e fra i cespugli alla sua ricerca, guardando qua e là per sco-prire se vi fossero impronte di scarponi. L'oscurità incombente non m'infa-stidiva troppo: avrei trovato quel bastardo d'un furbacchione e, dopo aver-gli mollato un bel pugno fra le costole, ci saremmo fatti quattro risate as-sieme dando fondo alla borraccia del brandy.
Per almeno un quarto d'ora esplorai i dintorni, compiendo dei giri intor-no alla chiazza di luce azzurrina emanata dalla lastra che avevo tenuto co-me punto di riferimento, ed alla fine la stanchezza e il freddo mi costrinse-ro a rinunciare. Orme non ce n'erano, e questo mi fece pensare che lo stra-no oggetto doveva esser stato messo in quel posto da qualcuno del college giorni addietro. Non avevo certo tenuto segreta la mia intenzione di fare un giro in quella zona, e dunque dovevano averlo lasciato lì nella previsione che io lo trovassi. L'ipotesi però non mi convinceva molto. Seguitai a chiamare a gran voce, invitando il mio amico a venir fuori ed a piantarla con quello scherzo. La temperatura stava scendendo, ed il luogo non si poteva definire il più adatto per insistere in una burla da studenti.
Tornai presso la lastra metallica e la presi in mano. S'era alquanto raf-freddata, anche se doveva essere ancora sui quarantacinque o cinquanta gradi, ed era senza dubbio un oggetto insolito. Sempre più sconcertato, me la portai dietro fino al luogo dove avevo fatto il campo, e poi accesi il fuo-co facendolo più grosso e scoppiettante di quanto non sarebbe servito. D'un tratto non mi sentivo per niente tranquillo, il cuore mi batteva forte e lanciavo alla boscaglia occhiate preoccupate. Le montagne erano immerse nelle tenebre, nel freddo e nel silenzio delle regioni desolate ai confini del mondo, ed in quell'immensità buia avevo la sgradevole impressione d'esse-re sperduto e in pericolo.
Tesi le mani sul fuoco e feci uno sforzo per ignorare quelle sensazioni. Aprii una scatoletta di fagioli e una di carne, che deposi accanto alle fiamme per riscaldarle. Ancora non avevo esaminato meglio la lastra, qua-si che prima sentissi il bisogno di rinfrancarmi lo spirito con quelle attività casalinghe e familiari. Soltanto quando la cena fu pronta, presi di nuovo in mano lo sconcertante oggetto.
Lo girai e rigirai fra le dita studiandolo alla luce rossastra del fuoco, e conclusi che si trattava di una spessa busta o comunque di un contenitore di qualche genere. Il colore del metallo era azzurro, e notai che adesso e-metteva solo una frazione del lucore simile alla fosforescenza che avevo osservato prima. Anche il suo calore s'era ridotto di molto, al punto che fra i polpastrelli lo sentivo quasi freddo. Da quanto tempo giaceva fra la neve
di quel bosco? Quanto a lungo aveva atteso che proprio le mie mani lo raccogliessero?
Mentre quelle domande mi si agitavano nella mente la sua luminosità re-sidua scomparve del tutto, quasi che fosse stata legata alla necessità che io lo ritrovassi ed ora fosse inutile.
«Il messaggio è giunto a destinazione, anche se non ho visto il postino,» mormorai a me stesso con un leggero brivido, conscio che non si trattava interamente d'una battuta di spirito.
Esaminai di nuovo i caratteri di quella breve intestazione. Avrebbe potu-to essere antica grafia inglese, ma ne sapevo troppo poco per azzardare ipotesi e diagnosticare la data di compilazione. Lo stile mi ricordava quello di certi vecchi manoscritti che avevo consultato a Oxford, risalenti al XVII. Secolo, sebbene non potessi esserne certo. Per contro, la sfoglia stessa era il prodotto di una tecnica che non s'inquadrava certo con quell'e-poca. Pur sottile, era robustissima e flessibile, e cercai invano di spiegaz-zarla e di graffiarne la superficie. La sua forma e struttura era quella di una busta, riflettei ancora, e dunque, per saperne di più, avrei dovuto aprirla.
Ma come fare? Usando l'apriscatole, tentai di forzarne il bordo, però, neppure dopo ripetuti sforzi, riuscii a cacciarvi dentro la lama. A malapena ne intaccai uno degli angoli per qualche millimetro, sudando e ringhiando, e poi fui costretto a concludere che quello non era il sistema migliore.
Di nuovo la osservai con pazienza, meravigliato e deluso. Sulla faccia opposta a quella che recava scritto il mio nome c'era un circoletto, non dissimile dall'impronta scura e incavata che avrebbe potuto lasciarvi un timbro. Lo sfregai con una manica e vidi che non si cancellava facilmente, al contrario dei caratteri sulla parte anteriore. Lo scrutai con attenzione. L'inchiostro, se pur era tale, sembrava incorporato nel metallo, ed i suoi bordi sopraelevati erano nitidi e perfetti nella forma.
Concludendo che doveva avere una sua precisa funzione, provai a pre-mervi sopra con l'apriscatole, ma non successe niente. Allora sospirai e deposi la busta su una pietra, accorgendomi che la cena si stava riscaldan-do fin troppo. Dopo aver mangiato, montai la piccola tenda in pochi minuti e srotolai il sacco a pelo. Ero stanco morto, e mi auguravo solo di poter fare una buona nottata di sonno ristoratore.
Compresi tuttavia che avrei avuto delle difficoltà ad addormentarmi sul terreno duro, e con la testa fuori dalla tenda fissai pigramente le braci del fuoco farsi sempre più deboli e rossastre. Mi sentivo solo. L'universo in-torno a me era un affollarsi di ombre uguali a quelle che avevano circonda-
to minacciose i primi uomini nelle tenebre della preistoria, forme immobili di alberi e di rocce fra le quali neppure il vento trascinava i suoi sussurri. E avevo la bizzarra impressione di oscure presenze, incerte, evanescenti, forse pericolose, sogni che s'aggiravano come sospiri sotto quel gran cielo stellato, probabilmente l'indesiderata compagnia degli spiritelli arcani che già tormentavano le notti dei nostri progenitori nelle caverne.
Ero certo che quella busta misteriosa non fosse una burla né un inganno. Ad un tratto mi sentii disposto a scommetterci qualunque cosa. Quella si-curezza nitida e repentina scacciò di colpo la nebbia del sonno che mi sta-va invadendo la mente, e scivolai fuori dal sacco a pelo. Gettai qualche ramoscello sulle braci per ravvivare il fuoco e raccolsi ancora la spessa sfoglia di metallo azzurro. Un'intuizione inspiegabile m'aveva suggerito quello che doveva essere l'unico modo possibile per aprirla.
Rannicchiato nel sacco a pelo, mezzo dentro e mezzo fuori dalla tenda, appoggiai delicatamente il polpastrello del pollice destro sul circoletto e ve lo premetti un istante. In risposta a quel contatto, e proprio come avevo in parte sperato e in parte temuto che accadesse davvero, la busta si apri da sola. Annuii fra me, ancora stupefatto: soltanto il destinatario del messag-gio avrebbe potuto far scattare la sua inconsueta chiusura, ed indubbiamen-te quel destinatario ero io. Con un rumore di cellophan, la faccia anteriore della sfoglia si divise in due parti piano piano, lungo una linea di giuntura che non ero riuscito a scorgere neppure aguzzando lo sguardo.
Appena l'apertura fu completa, una parte del contenuto cadde fuori: era un comune anello di metallo rosso, sul quale era incisa come unico simbo-lo e tutta spiegazione del suo uso la lettera «C». Lo misi da parte, perché avevo visto che nella busta c'era anche una lettera, e la estrassi con mani che tremavano d'eccitazione.
Subito notai che era vergata in grafia identica a quella dell'intestazione, ma mi sentii una goccia di sudore gelido scendere lungo la schiena quando ne lessi la data. Il foglio, anch'esso metallizzato come la busta, recava in alto a destra la dizione: «Il terzo giorno di Febbraio, anno di Nostro Si-gnore 1640».
Dunque era stata scritta più di tre secoli addietro, sempre che non fosse una contraffazione, ma quell'ipotesi era ormai lontana dai miei pensieri. Fatto abbastanza strano, inoltre, quel giorno era proprio il 3 di Febbraio, trecentocinquant'anni esatti dopo la sua compilazione. Un'altra cosa appa-rentemente senza spiegazione era la firma in calce al messaggio, che aveva tutta l'aria d'essere in moderno corsivo inglese.
Conoscevo quella firma, l'avevo già vista un paio di volte su documenti che mia zia ancora conservava, ma non ne avevo mai visto di persona l'au-tore. Era quella di mio padre, l'uomo che s'era defilato dalla mia vita e dai suoi doveri due decenni addietro. Ed ora quel nome tornava per turbarmi e sconvolgermi, come un'immagine spettrale uscita da un passato che avrei preferito dimenticare.
Per un momento la vista mi si offuscò, e tremai. Solo con uno sforzo di volontà tornai cosciente di essere lì, nel mezzo d'una foresta nevosa fra le montagne del New Hampshire; ma era una realtà che pur solida stentavo ad accettare del tutto, perché in mano avevo una lettera scritta da un uomo che avevo creduto morto ed invece era vivo. Un uomo che incredibilmente affermava di scrivermi da un passato trascorso da tre secoli e mezzo, da una dimensione di sogno, dall'irreale. Mio padre.
Ancor oggi ricordo quella lettera fino all'ultima virgola. Era un semplice messaggio di poche righe, e lo porterò impresso nel mio cervello finché, come dice la Bibbia, tornerò ad essere polvere fra la polvere.
Il terzo giorno del mese di Febbraio,
nell'anno di Nostro Signore 1640
Tarl Cabot, figlio mio,
so che dovrei domandarti perdono per molte cose, e so che non ho il diritto di chiederti nulla. Ma tutto ciò che è accaduto era già stato deciso, al di fuori della mia e della tua volontà. Anche tu forse non hai una vera scelta per quel che riguarda la tua vita, perché il tuo destino è già sopra di te. Ma se la scelta sarà quella che penso, allora limitati a tenere su di te l'anello di metallo ros-so. E non dimenticare di portarmi una manciata della ricca e o-dorosa terra del tuo mondo.
Spero che tua madre goda di buona salute e sia felice. Spero che tu non debba mai soffrire.
Allontana con cura questa lettera da te, perché fra poco essa si distruggerà.
con affetto, tuo padre,
Matthew Cabot
Lessi e rilessi quelle parole sentendo che dentro di me scendeva un sen-
so di calma innaturale, di cui non capivo l'origine. Malgrado i miei sensi vacillassero sull'orlo dell'allucinazione, malgrado il ritorno di quel dolore sordo che tutti gli orfani di madre e di padre si portano dietro, ero immerso in uno stato di pace simile alla trance. Ma, sotto di essa, stava per esplode-re irresistibilmente la paura della follia e dell'ignoto. Chiusi la lettera nello zaino e, dopo averci pensato su qualche istante, mi misi in tasca l'anello rosso.
D'improvviso però, lo spavento divenne una sensazione gelida che mi faceva vedere un pericolo dietro ad ogni ombra, e fui conscio che dovevo immediatamente andarmene da quel luogo sperduto. Sarei tornato al college alle prime luci dell'alba. No, riflettei subito dopo: all'alba avrebbe potuto essere troppo tardi, era necessario togliermi da lì senza perdere un minuto, anche se tentare una marcia in quel buio significava mettere a re-pentaglio la vita.
Avevo la tenibile sensazione d'essere sorvegliato, seguito, spiato, e sa-pevo che restare accovacciato nella tenda senza poter chiudere occhio, sarebbe stato ancora peggio. Col cuore in tumulto arrotolai tenda e sacco a pelo, li fissai ai supporti metallici dello zaino e mi caricai l'equipaggiamen-to sulle spalle. Poi dispersi nella neve i resti del fuoco, calpestando le fiammelle finché tutto intorno a me fu tenebra, e mi avviai alla cieca per la discesa che portava a valle.
Ero un idiota a sfidare in quel modo l'oscurità, questo mi diceva il razio-cinio: al minimo mi sarei rotto una gamba ruzzolando giù da una roccia, o mi sarei spaccato la testa contro un tronco d'albero. Ma in quel momento non me ne importava nulla. Non sapevo da cosa stavo fuggendo e perché, però sapevo che c'era qualcosa da cui dovevo allontanarmi, qualcosa che sarebbe piombato su di me se solo fossi rimasto nel luogo dove avevo tro-vato il messaggio. Dunque dovevo mettere fra me e questa cosa quanta più strada possibile.
Stavo scendendo fra i pini di un falsopiano da circa venticinque minuti quando, con mio orrore, dallo zaino che mi ballonzolava sulla schiena sca-turì una gran lingua di fiamma azzurrina. Me ne liberai con un grido e lo gettai via, appena in tempo per evitare la vampata di fuoco violento ed improvviso che aveva avvolto anche la tenda e il sacco a pelo. I pini e i cespugli furono illuminati per un raggio di cinquanta metri dalle lingueg-gianti fiamme bluastre che divoravano l'equipaggiamento da campo, spri-gionando un calore fortissimo, ed io indietreggiai abbagliato. Non avevo dubbi che ad ardere così fosse la busta di metallo, e riflettei che, se invece
di fissarla nel sacco l'avessi tenuta in tasca, ne sarei stato terribilmente ustionato.
Restai lì come ipnotizzato a fissare stupidamente quel piccolo incendio finché, dopo appena un minuto, esso si spense. Non mi passava neppure per l'anticamera del cervello che quella gran luce poteva aver rivelato la mia posizione ad eventuali inseguitori, altrimenti mi sarei allontanato in fretta. Invece tolsi di tasca l'accendino e mi avvicinai alle ceneri per esa-minarle alla luce della fiammella: della mia roba non era rimasto niente, a parte fibbie e supporti metallici anneriti. L'unica traccia che indicava come lì fosse bruciato qualcosa era il circolo di neve sciolta rimasto al suolo. Nell'aria aleggiava ancora un odore acre, sconosciuto.
Portandomi una mano al taschino della camicia, controllai d'avere sem-pre con me l'anello. Sarebbe arso anch'esso, scatenando un fuoco chimico altrettanto furibondo e repentino? Avrei giurato di no, sebbene la tentazio-ne di buttarlo via fosse forte. Il messaggio mi aveva esortato a star lontano dalla busta, un avvertimento a cui ora mi pentivo di non aver dato ascolto, ma non suggeriva certo l'ipotesi che l'anello dovesse seguire la stessa sorte. Mi era stato mandato per uno scopo e, qualunque esso fosse, non avevo intenzione di servirmene, tuttavia ero abbastanza certo che il metallo di cui era composto fosse diverso.
Ma cosa c'era dietro a tutto ciò? In che modo misterioso m'era stato fatto pervenire il messaggio? Cos'aveva realmente voluto dire mio padre con quelle scarne frasi che ponevano più enigmi di quanti ne chiarissero? Deci-si che, padre o non padre, ero venuto in contatto con oggetti e forze di stampo non umano. E lì, stretto fra quelle montagne ed immerso nelle om-bre di una foresta silenziosa, tutto ciò mi spaventava al punto che avrei voluto gridare e fuggire via.
M'era rimasta la bussola, la sola cosa dell'equipaggiamento che non fos-se venuta in contatto con quel fuoco stregato. Piuttosto confuso, e più che mai cieco ora che il buio della notte aveva sostituito di nuovo la luce abba-gliante, cercai di capire da che parte dovevo andare illuminando il qua-drante. Avevo appena fatto scattare la fiammella a gas, che pensai d'avere le traveggole: l'ago magnetico girava in tondo con tale velocità che stenta-vo a vederlo, quasi che in quella zona le leggi di natura fossero sconvolte da una forza invisibile che incombeva su di me.
Deglutii a vuoto, mentre anche quel poco di autocontrollo rimastomi se ne andava di colpo. La bussola, l'unico oggetto che ancora mi legasse alla realtà del mondo civile, era diventata una cosa incomprensibile che si fa-
ceva gioco del mio spavento. In preda ad un tremito furibondo, la scagliai a terra, con un grido che suonò acuto e stridulo per il terrore che mi strin-geva alla gola.
Un attimo dopo, stavo correndo nell'oscurità come un animale selvatico istupidito dalla paura, ciecamente e senza una meta, deviando qua e là fra le piante e le rocce su cui andavano a sbattere le mie braccia protese.
Non sono in grado di dire quanto durò quello stato di terrore irragione-vole e quanto a lungo corsi. Forse un'ora, forse due, forse appena dieci minuti. Rammento solo che ero fuori di me. Cambiai direzione molte vol-te, mi arrampicai sulle scarpate, urtai nei tronchi degli alberi e rotolai a terra stridendo di dolore e di frustrazione. Ricordo d'aver sentito sulle lab-bra il sapore delle mie lacrime, e poi quello amaro della neve fangosa in cui caddi più volte bocconi, e so di aver gridato in preda a un panico senza nome quando vidi due occhi fosforescenti fissarmi nelle tenebre e sentii lo sbattere di ali nel sottobosco. Nella selva non ero più un essere umano ma una bestia smarrita, una preda che sentiva dietro di sé gli artigli affilati della morte.
Poi mi ritrovai in una zona aperta, dove la neve risplendeva argentea sot-to i raggi della luna e le White Mountains si levavano come bianchi giganti contro il firmamento stellato. Ero distrutto. Mi lasciai andare lungo disteso a terra ed ansimai, incapace di capire cosa mi avesse ottenebrato il razioci-nio e perché avessi galoppato in quel modo. Non m'era mai accaduto di soccombere a sensazioni così primitive e stordenti, grottesche. M'ero ab-bandonato ad esse, e gli istinti atavici s'erano impadroniti di me, o forse era stata una forza arcana a dominarmi del tutto, trascinandomi verso una meta prestabilita da entità oscure più forti della mia volontà.
La sfinitezza ebbe l'effetto di rendermi più calmo e, pian piano, riacqui-stai lucidamente il controllo dei miei nervi. Ero stato un pazzo a precipi-tarmi così nella boscaglia, va bene, ma dov'ero venuto a finire? Mi guardai attorno e borbottai un'imprecazione: a poca distanza da me c'era la grande piattaforma di roccia accanto a cui avevo fatto il campo, e sotto il petto avevo le ceneri spente del mio fuoco. In qualche modo ora sapevo, senza possibilità di dubbio, che qualcuno o qualcosa aveva guidato i miei passi ciechi fin dove si voleva che io arrivassi.
Giacqui sulla terra umida senza la forza di muovermi, bagnato di sudore che sotto al vestito stava diventando una patina fredda. Sentivo la stan-chezza e avvertivo il dolore delle ammaccature, ma questo non mi dispia-ceva. La sofferenza stava a testimoniare che possedevo ancora un corpo e
che ero vivo.
Poi vidi la nave scendere dal cielo nero. Era una stella e divenne una ve-loce cometa, era una luce d'argento e divenne un gran disco di metallo, era un'allucinazione dei miei sensi tormentati e divenne solida realtà, un og-getto concreto che voleva me.
Atterrò sulla piattaforma di roccia in perfetto silenzio, voluminosa, mas-siccia, ed io mi tirai in piedi come una marionetta dai fili allentati in attesa che il burattinaio uscisse e mi facesse ballare ancora. Mentre cercavo di comprendere con un solo sguardo quel vascello stellare, di tenerlo fermo nei miei occhi per accettarne l'esistenza, un portello sulla sua lucida fianca-ta si aprì da solo. Non accadde altro, ma io sapevo che avrei dovuto entrare là dentro.
Per un attimo le parole di mio padre mi echeggiarono nella mente: «Il tuo destino è già sopra di te». Lo aveva inteso alla lettera? E cosa signifi-cava tutto ciò, se pure non ero impazzito? Prima di muovermi verso il por-tello, mi chinai lentamente e raccolsi in una mano un po' di terriccio come lui mi aveva chiesto. Poi mi mossi verso quella nave del cielo tenendo stretta nel pugno la sola cosa che sentivo di dover portare con me, perché faceva in un certo senso parte di me. Una manciata di terra del mio mondo verde e fertile, del suolo che aveva nutrito le cellule del mio corpo, del mio pianeta. Ero convinto che non lo avrei rivisto mai più.
Nessun commento:
Posta un commento