mercoledì 29 dicembre 2010
domenica 26 dicembre 2010
sabato 25 dicembre 2010
martedì 21 dicembre 2010
D'inverno
D’inverno
È dunque d’inverno son coperte e chiuse le tue cosce.
Di calze oppure di tela o gonne mosce
Li cova tra i semi chiusi al buio sommesso.
Un vagito caldo impetuoso carico di sesso
Pare quasi che il cuore si scateni
Mentre godi ed inarchi le tue reni
Fuor che sia freddo oppure gelato
Nel tuo mondo altra troia hai generato
È dunque d’inverno son coperte e chiuse le tue cosce.
Di calze oppure di tela o gonne mosce
Li cova tra i semi chiusi al buio sommesso.
Un vagito caldo impetuoso carico di sesso
Pare quasi che il cuore si scateni
Mentre godi ed inarchi le tue reni
Fuor che sia freddo oppure gelato
Nel tuo mondo altra troia hai generato
domenica 19 dicembre 2010
capitolo terzo
Capitolo Terzo
IL GRIFONE
«Dovrò forse gettarmi giù dalla finestra, per trovare un po' di vera e de-finitiva pace?», singhiozzò drammaticamente Torm, levando al cielo le braccia magre.
Il giovanotto, il più improbabile membro della Casta degli Scrivani che vi fosse nella Città delle Torri, si copri il volto con un lembo della sua scalcinata tonaca blu come a ripudiare la vista della mia persona e del resto del mondo. I suoi slavati occhi celesti, piazzati ai lati di un secco naso ad uncino, emersero di nuovo dal riparo di stoffa per fissarmi con disperazio-ne.
«Cos'ho fatto per meritarmi questo? Sentiamo, cos'ho fatto di male?», mi accusò. «Perché proprio io, un emerito idiota, devo vedermi afflitto da altri idioti ancora peggiori? Forse lassù, nel luogo da cui tu sei piombato sulle mie spalle, si crede che io sia alla ricerca di oziosi stratagemmi per passare il tempo? Guarda qui, e là: carrettate di libri, di fascicoli, di pergamene, di appunti, e tutti ancora in attesa che io disponga d'un minuto libero per stu-diarmeli!»
«Non mi hanno detto che eri tanto occupato,» mi scusai.
«Non glielo hanno detto!», gemette lui. «Ho tanto da fare, che sono stato costretto a diventare sonnambulo per lavorare anche quando dormo. Guar-dati attorno. Sono trascorsi due anni dal giorno in cui mi feci prestare una scopa per spazzare, ma quel diabolico oggetto andò subito smarrito nella confusione, e da allora neppure uomini arditi e capaci sono riusciti a ritro-varlo più!»
Il locale era certamente il più caotico e disordinato che avessi mai visto su Gor. Sulla grande e malandata tavola di legno erano affastellate pile di fogli, boccette d'inchiostro in malcerto equilibrio, penne, carte assorbenti, matite smozzicate, libri rilegati a mano, tagliacarte, e un assortimento d'oggetti vari che ne occupavano il piano fino all'ultimo millimetro. Il pa-vimento era ingombro di scartafacci e manoscritti dai fogli sciolti, ammuc-chiati presso le pareti, mentre sugli scaffali di legno era già stato poggiato o compresso tutto ciò che era possibile farvi stare, compresi dei capi di biancheria sporca. Il letto in un angolo aveva l'aspetto di una cuccia per cani, e le lenzuola non dovevano esser state cambiate da mesi, sebbene dal colore avrei detto che ogni tanto le rivoltava, tutti i suoi oggetti personali erano seppelliti e dispersi in cumuli di ciarpame da cui le pile dei libri pol-verosi emergevano come torri di guardia.
Una delle due finestre della stanza aveva una forma stupidamente irrego-lare, forma venuta a crearsi dopo che Torni, irritato per la scarsa luce che ne entrava, l'aveva allargata a colpi di piccone raffazzonandone alla meglio l'intelaiatura. Sotto il tavolo, e così pericolosamente vicino ad esso da ab-brustolirne la vernice, un grosso braciere fungeva da impianto di riscalda-
mento. Bruciature annerite su tutte e quattro le gambe testimoniavano che i principi d'incendio erano una seccatura a cui ormai Torm sapeva porre rimedio.
Il giovanotto affermava che lì dentro d'inverno si piangeva per il freddo e d'estate non si dormiva per il caldo, mentre inconvenienti che andavano dalle cimici agli attacchi di malinconia gli insidiavano atrocemente le notti senza differenza di stagione. Adesso eravamo in inverno, il raffreddore era la battaglia che stava combattendo, e strisce umide su entrambe le maniche della sua tonaca da Scrivano rivelavano che possedeva un sistema rapido per pulirsi il naso senza fazzoletto. Le lamentele sul prezzo del carbone e le imprecazioni contro il freddo rappresentavano in quel periodo i tre quar-ti dei suoi discorsi più accalorati.
Fisicamente era magro, allampanato, e ricordava un fenicottero che ogni tanto sbattesse le ali squittendo contro le nequizie del mondo in cui era costretto a vivere. Sulla sua tonaca blu si potevano individuare, da qualsia-si parte la si osservasse, almeno una dozzina di scuciture alcune delle quali semiaggiustate da mani a dir poco inette. Uno dei suoi sandali di cuoio era stato raffazzonato con una legatura di spago, ed un capo di questo spago egli se lo trascinava dietro bestemmiando ogni volta che vi inciampava.
Nelle poche settimane trascorse dal mio arrivo su Gor, avevo avuto mo-do di constatare che quella gente metteva una cura meticolosa nell'abbi-gliamento, sfiorando talvolta la ricercatezza e l'eleganza più sofisticata, e teneva moltissimo alla propria apparenza esteriore ma, a quanto pareva, le inclinazioni di Torm viaggiavano su binari suoi personali. Di vanità come la pulizia e l'ordine nel vestire, venivano da lui rimproverati tutti coloro che, come me, avevano la sfortuna di dover sopportare le sue battute acide.
E tuttavia, malgrado l'estrema eccentricità e la petulanza esasperante, Torm era dotato di qualità che ero costretto ad ammirare: un genuino senso dell'umorismo, l'assoluta mancanza di ipocrisia, una gentilezza innata, l'a-more per le cose belle, ed il fatto che sapeva vedere gli aspetti buoni perfi-no delle persone meno meritevoli.
Amava teneramente i suoi libri maltenuti, ed amava gli autori che li ave-vano scritti secoli addietro. Apparteneva a quella ridotta schiera di cinici che sanno storcere la bocca di fronte al mondo intero e tuttavia poteva farsi venire le lacrime agli occhi osservando dei bambinetti che giocavano su un prato. E se il suo sguardo non riusciva a vedere gli strappi della veste che indossava, poteva però smarrirsi nel verde di una campagna incolta scor-gendovi bellezze che per altri non esistevano neppure. Per incredibile che
possa sembrare, non avevo mai dubitato che fosse proprio lui il miglior insegnante a Città delle Torri, come mio padre aveva dichiarato.
Con aria pigra e disgustata, il giovanotto frugò tra i mucchi di libri, met-tendosi carponi per farsi largo fra essi, e ne pescò fuori un volumetto dalla copertina metallica chiusa con un fermaglio. L'aprì all'altezza di un segna-libro e sedette accanto a me, mostrandomi la pagina. Era un abbecedario.
«Al-ka», esclamò, battendo l'indice su una delle figure disegnate a ma-no.
«Ael-kae,» ripetei io, sbagliando completamente la pronuncia.
Torm mi fissò ostentando un'enorme pazienza. «No, testone d'un anglo-sassone dalla bocca storta. Al-ka, al-ka!»
«El-kaa,» dissi, con uno sforzo.
Torm ridacchiò, scosse il capo e si voltò a recuperare un calamaio dal caos del tavolo. «Ecco qua,» mi informò. «Guardati un al-ka al naturale, amico, così potrai sapere cosa ti vuoterò sul capo, sull'anima di mio nonno, se sbaglierai ancora a pronunciare il suo dannatissimo nome!»
Le settimane seguenti mi videro immerso in un'intensa attività, interrotta appena dalle pause per i pasti e dal riposo notturno. Nei primi tempi, sol-tanto Torm e mio padre mi fecero da insegnanti, ma quando cominciai a masticare un po' la lingua goreana, anche altri, fra cui un paio originari della Terra, spesero con me un po' del loro tempo.
L'inglese di Torm era molto buono, seppure deformato dall'accento go-reano, dato che il giovanotto conosceva la mia lingua solo per averla stu-diata. Il fatto che Torm si fosse preso la briga d'imparare una lingua pres-soché inutile su quel pianeta, testimoniava di qual genere fosse la sua men-talità. Dichiarava di trovarla più ricca ed espressiva del goreano, di parlarla volentieri, e tanto gli era bastato per volersene impadronire.
Il programma scolastico che mi veniva imposto era meticoloso e pesan-te. Oltre allo studio dovevo applicarmi con la massima buona volontà negli esercizi fisici, ovvero nell'uso pratico delle armi bianche. Non mancavano le ore dedicate all'apprendimento degli usi e dei costumi della popolazione, né lo studio di piccoli strumenti di misura diffusi su Gor così come sulla Terra sono diffuse le bilance e le calcolatrici tascabili.
Buona parte degli oggetti che mi vedevo attorno erano di stampo medie-vale, ma non mancavano apparecchi che mi risultarono stupefacenti, come ad esempio il traduttore istantaneo, nel quale potevano essere immagazzi-nati vari linguaggi del pianeta e che ne forniva subito la traduzione vocale.
La lingua principale era il goreano comune, che tuttavia aveva a seconda delle regioni accenti e dialetti a non finire. C'erano però altre lingue del tutto diverse, spesso dal suono incredibile, ed un paio avevano tonalità e acuti che non credetti umanamente possibile imitare; sembravano piuttosto linguaggi di uccelli o di animali feroci. L'uso del traduttore istantaneo era semplice: bastava parlare in un microfono, e dall'altra parte usciva una sequela di parole nel linguaggio su cui si era regolato l'interruttore, a frasi separate. Oltre all'inglese, il suo piccolo cervello elettronico conteneva quattro delle principali lingue terrestri, praticamente complete, e una pro-nuncia passabile era sufficiente per ottenere la traduzione esatta. Sulla Ter-ra un gingillo di quel genere mi avrebbe fruttato miliardi.
«Sei un ignorante, non scordarlo mai. Ma chi sa d'essere un ignorante cammina sul sentiero della verità,» mi ripeteva Torm ad ogni mio più pic-colo passo in avanti. «Però una sana ignoranza non è tutto nella vita. Ad esempio, per uscire dal Sentiero della Verità, occorre essere anche un im-becille. Eppure, come faresti ad accorgerti che cammini su quella via se non provi ad uscirne sperimentalmente ogni tanto? Questo significa dun-que che la vera sapienza si raggiunge solo se si è davvero ignoranti e per di più imbecilli. E ora avanti con la lezione: usi e costumi di Gor. Che cos'è un Santuario? Quali sono le regole del Duello d'Onore? Quali diritti sono legati alla pietra della Casa? Tre minuti per tre risposte!»
Bene o male, cercando di utilizzare al meglio quel periodo d'istruzione forzata, il mio lavoro d'apprendimento andò avanti. Torm accoglieva i miei errori con strida di raccapriccio quand'erano di poco conto, e davanti a quelli più gravi esibiva un silenzio drammatico. Talvolta raccoglieva un libro, scelto fra quelli che non riscuotevano la sua approvazione, e me lo tirava addosso; talaltra minacciava di fare lo sciopero della fame finché non avessi studiato a fondo qualche argomento importante. Era deciso a far sì che io approfittassi nel miglior modo della sua emerita opera d'insegnan-te.
Cosa singolare, lo studio della religione era ridotto ai minimi termini, e ciò mi sembrò far parte di un'accorta politica tesa ad incoraggiare lo svi-luppo di arcani timori verso i Re-Sacerdoti. Torm rifiutava di parlarmene, borbottando che di quelle insulsaggini se ne occupavano gli Adepti.
Venni a sapere che costoro, organizzati in una casta abbastanza circo-scritta e chiusa, non incoraggiavano affatto la gente a partecipare alle loro cerimonie sacrificali. Mi vennero date delle preghiere da imparare a me-moria, ma non ne compresi molto perché erano in goreano antico; si tratta-
va della lingua usata in liturgia dagli Adepti, e pochi si davano la pena di studiarla. Con mio divertimento scopersi che Torm, sebbene si vantasse d'avere una memoria fenomenale, le aveva del tutto dimenticate ormai da anni. Non c'era troppo da meravigliarsene: non avevo bisogno di venire su Gor per sapere che fra letterati e religiosi la simpatia è sempre stata abba-stanza tiepida. E la Casta degli Scrivani abbondava di scettici inveterati.
La morale veniva invece insegnata da maestri che non avevano niente a che vedere con la Casta degli Adepti. Spettava infatti alla Casta dei Legi-slatori occuparsene, ed essi tramandavano quella in uso fin dai tempi più antichi senza tollerare modifiche o perfezionamenti. Fui istruito da uno di loro specialmente riguardo alle leggi che regolavano i comportamenti all'interno della Casta dei Guerrieri.
«Una cosa che non troverai scritta su questi scartafacci te la dirò adesso, amico,» stabilì Torm. «Tu non sarai mai accettato nella Casta degli Scri-vani.»
«Non credo sia questo che mio padre vuole. Dà troppa importanza agli allenamenti con le armi.»
«Non prendertela,» ghignò lui. «Qualche volta si scrive meglio con la spada.»
Il codice d'onore dei guerrieri era, in linea generale, improntato su com-portamenti di rude cavalleria, sulla fedeltà alla Pietra della Casa e sul ri-spetto verso il Capocasta chiamato Guerriero Anziano. Era un insieme di regole severe che obbligavano ad una galanteria e ad un senso dell'onore di stampo apprezzabile. Decisi che avrei potuto adeguarmi ad esso senza dif-ficoltà.
Mi stavano impartendo quella che veniva chiamata la Seconda Educa-zione, cosiddetta perché oltrepassava la conoscenza di stampo popolaresco basata sulle credenze empiriche, e quindi avrei dovuto giungere al livello dei letterati di Gor e dei membri delle Caste Alte, che avevano un atteg-giamento mentale più sofisticato.
Nelle Caste Basse il popolo riceveva invece la Terza Educazione, e fra le due c'erano delle differenze sorprendenti; ad esempio, la gente comune era incoraggiata a credere che il mondo fosse piatto come una pizza e che il sole gli girasse attorno spinto dal potere dei Re-Sacerdoti. Simili cose poco edificanti mi rafforzarono nella convinzione che si cercava di tener sotto controllo le Caste Basse con l'universale metodo di mantenerle nell'igno-ranza.
D'altra parte le Caste Alte, ovvero quelle dei Guerrieri, degli Ingegneri,
degli Scrivani, degli Adepti e dei Medici, ricevevano un'istruzione quanto più completa possibile. Per ciò che riguardava argomenti astronomici, si dava per scontato che un individuo abbastanza abile da poter restare in queste caste, capisse anche da solo realtà come la rotondità del pianeta, magari deducendola dall'osservazione dei tre piccoli satelliti di Gor.
Domandarsi come potevano coesistere nozioni elementari di carattere tanto diverso era inutile: avevo davanti a me una società in cui quel siste-ma veniva reso funzionante. Volendo andare per il sottile avrei potuto far notare che sulla Terra, nell'era della televisione, i governanti avevano e-scogitato ben altri metodi che l'aperta menzogna per tener sotto controllo le masse; ma Gor non era un mondo dove la sottigliezza fosse troppo ne-cessaria.
C'era da riflettere che, se i popolani ricevevano la Terza Educazione e gli intellettuali la Seconda, doveva esisterne una Prima. Le mie domande in merito però non ricevevano mai risposte molto soddisfacenti, anche se mio padre non tralasciava di erudirmi sui fatti sociali.
«La base politica ed economica della società,» mi spiegò una sera, «è la città-stato. Che siano ostili o amichevoli con le comunità adiacenti, le cit-tà-stato controllano tutta la terra che riescono ad annettersi ed espandono i loro confini il più possibile. Le zone improduttive, poco interessanti, im-possibili da governare oppure troppo vicine ai confini di un'altra città, ven-gono considerate terra di nessuno.»
«Com'è strutturato il sistema di governo all'interno delle città?», doman-dai.
«I governanti sono i membri più eminenti delle Caste Alte, gli Anziani di ciascuna di esse, oppure i loro delegati.»
«Non c'è qualche rappresentante del popolo?»
«Stai scherzando?», disse lui, fissandomi come se fossi ubriaco. «Nella Terza Educazione, sulla quale si fonda la mentalità del popolino, esistono dozzine di favole e di storie vere che testimoniano come ciò sarebbe inde-siderabile, dimostrando che, quando i membri delle Caste Basse vanno al potere, accadono disastri d'ogni sorta.»
Io cercai di mantenere una faccia impassibile e poco interessata, e lui continuò con un sorriso paziente:
«La struttura interna di ogni Casta è relativamente immobile, in quanto fondata sulla trasmissione ereditaria della posizione sociale, però non è congelata. Ad esempio, se durante il periodo scolastico un ragazzino mo-stra attitudini diverse da quelle del padre, ha modo di cambiare Casta. Inol-
tre, se la sua abilità personale è scarsa per qualunque Casta, egli decadrà fino ai livelli più bassi di essa senza che il suo rango di nascita influisca troppo su questo destino.»
«Capisco,» dissi, annuendo pensosamente.
«Dalle Caste Alte di una città, dunque, vengono eletti un Ordinatore e un Consiglio, che restano in carica per un periodo fisso. In tempo di crisi o di conflitto si nomina invece un Capo di Guerra, il quale instaura una sorta di legge marziale e non si ritira fino al termine dell'emergenza.»
«Ed è lui stesso a determinare quando e se la crisi è finita?», chiesi, scet-tico.
«Normalmente sì. La questione è definita nel codice di comportamento della Casta dei Guerrieri, che non consente azioni disoneste e disonorevo-li.»
«Ma, nel caso che un Capo di Guerra non intenda lasciare il potere?», insistei, immaginando che anche su Gor l'ambizione facesse mettere da parte qualsiasi principio etico e morale.
«Chi lo facesse sarebbe abbandonato dai suoi seguaci. La tradizione vuole che egli venga lasciato da solo nel suo palazzo, e che il popolo infe-rocito entri ad ucciderlo.»
Cercai d'immaginare una scena di quel genere, ma mi sembrava una so-luzione troppo semplicistica per avvenimenti che nella realtà umana sono sempre assai complessi.
Mio padre dovette leggermi il dubbio in faccia, perché riprese: «Certo, può capitare che per un motivo o per l'altro le cose vadano diversamente. Ad esempio, il Capo di Guerra che riesce a formarsi un seguito di fedelis-simi, o di uomini prezzolati che lo sostengono, può debellare ogni opposi-zione e restare al potere. In questo caso egli assume la carica di Tiranno, e regna finché non viene deposto con la forza.» Nel dire questo la sua faccia si scurì al punto da farmi pensare che egli stesso conosceva un uomo simi-le. Molto lentamente ripeté: «Sì, finché qualcuno non lo spodesta con la forza.»
Le mie lezioni proseguirono interminabili, alleviate soltanto dalla pre-senza di Torm che me le rendeva meno faticose da sopportare.
Il pianeta Gor è ancora meno sferico della Terra. L'emisfero meridionale è più largo e panciuto di quello settentrionale, come una pera, e la sua ro-tazione avviene al contrario rispetto a quella del nostro pianeta. All'atto pratico la cosa non fa alcuna differenza, dato che la direzione da cui sorge
il sole viene chiamata lo stesso Levante o Culla dell'Alba. Il giorno ha pressappoco la stessa durata di quello terrestre, ed anche l'inclinazione del suo asse è quasi simile, cosa che lo fornisce di stagioni equivalenti. Ha due calotte glaciali, due fasce temperate, ed una zona equatoriale torrida. Con mia sorpresa scoprii che sulle carte geografiche figurava una quantità di zone bianche, ancora inesplorate. Ma dovetti ugualmente studiare a memo-ria innumerevoli nomi di fiumi, laghi, mari, catene montuose, valli e peni-sole sparse ovunque.
L'economia era fondata sull'agricoltura, il piccolo commercio e l'artigia-nato. Il prodotto più coltivato era una varietà di grano chiamata Sa-Tarna, ovvero Sorella della Vita. Abbastanza singolare, il nome con cui veniva indicato il cibo in generale era Sa-tassna, cioè Madre della Vita, e nomi consimili avevano i prodotti considerati indispensabili alla vita umana. La caccia era ritenuta una nobile attività, un po' come accadeva anche sulla Terra nell'epoca pre-industriale. Tutto ciò mi portava a supporre che il Vi-aggio dell'Acquisto fosse un'istituzione che durava da molti millenni, gra-zie alla quale Gor era stato popolato, anche se non riuscivo a trovare molta somiglianza fra il goreano e i linguaggi terrestri a me noti.
Avevo tuttavia troppo poco tempo per speculare e pormi domande di quel genere. L'addestramento che mi veniva imposto sembrava imperniato sull'idea di trasformarmi in un goreano in poche settimane oppure di farmi crepare nel tentativo. Devo riconoscere che provavo una cupa soddisfazio-ne nel vedermi trascinato ai miei limiti di resistenza, quasi che stessi u-scendo da un bozzolo fra gemiti e fatiche per trasformarmi in una persona più capace e padrona di sé. Ma cosa mi si voleva far diventare? Ancora non lo immaginavo. Le persone di cui andavo assimilando lo scibile appar-tenevano per lo più alla Casta degli Scrivani e a quella dei Guerrieri. I pri-mi includevano tutti coloro che avevano mansioni da impiegato, oltre al personale scolastico, e fra essi c'erano enormi differenze di posizione so-ciale. Dei secondi ancora non ero in grado di sapere molto.
Incontrai poche donne in quei giorni. Anch'esse erano inquadrate nelle rispettive Caste, potevano scendere o salire di rango a seconda delle loro capacità e cambiare casta allorché si sposavano, ma per esse gli usi varia-vano da città a città. Tutti gli individui che vedevo in giro sembravano discendere da antenati terrestri dei quali recavano ancora evidenti le carat-teristiche razziali e, a quanto avevo capito, il Viaggio dell'Acquisto si limi-tava a trasferire su Gor gente che poi veniva lasciata a se stessa, come a-nimali in una riserva da ripopolare.
Dalle facce che osservavo a Città delle Torri, ero giunto alla conclusione che i principali ceppi etnici erano stati due: quello nordico e quello medi-terraneo, quest'ultimo enormemente più diffuso e comprendente tutti i tipi razziali centro europei e del mediterraneo orientale. Non vedevo in città neppure un negro o un asiatico. I vari ceppi s'erano però incrociati e me-scolati fra loro per millenni, ed il goreano medio era scuro di capelli, robu-sto e abbastanza alto.
La lingua non conservava tracce terrestri o quasi, ed ero felice quando m'imbattevo in parole che derivavano chiaramente da una radice greca, latina o celtica. Se fossi stato un linguista, credo che avrei trovato affinità meno evidenti nella pronuncia e struttura dei suoni, individuando forse origini europee in parole ormai molto mutate. Venni fra l'altro a sapere che la discendenza terrestre era una nozione facente parte della Seconda Istru-zione, ovvero che si preferiva tenerne all'oscuro la massa degli appartenen-ti alle Caste Basse.
«Perché questa faccenda non viene divulgata fra la gente?», chiesi un giorno a Torm.
«Non è evidente?», borbottò lui, distratto.
«Per nulla. Che ragioni ci sono?»
Torm socchiuse gli occhi e mi fissò per un minuto buono, come riflet-tendoci su. Infine schioccò le dita.
«In verità ti dico che hai ragione tu, amico: le ragioni non sono affatto evidenti, almeno così a prima vista. Hai colto nel segno.»
«E allora cosa mi dici?»
«Dico di continuare questa lezione. Tu grufoli nella cultura disordinata-mente, come un maiale dentro un mucchio di spazzatura. E i maiali troppo avidi possono spaccarsi i denti sopra un sasso,» fu tutta la risposta che mi diede.
Più andavo avanti e più mi convincevo che il sistema delle caste rispon-deva perfettamente agli scopi dei suoi creatori. Instaurava un ordine socia-le, premiava i meritevoli, puniva gli incapaci e i ribelli. Un signorotto me-dievale l'avrebbe approvato di corsa, dato che corrispondeva in pieno alle idee di quegli aristocratici rinascimentali che amavano definirsi di larghe vedute e amici del popolo... a patto che il popolo sapesse stare al suo po-sto.
A malincuore dovevo riconoscere che in effetti funzionava, e forse pro-prio perché era tanto rigido e duro. Ma un particolare non mi andava e non mi sarebbe mai andato giù, perché su Gor il sistema della schiavitù era
legalizzato. Due sole categorie esulavano dall'ingranaggio delle caste, a parte i Re-Sacerdoti, e queste erano i fuorilegge e gli schiavi. Chi rifiutava questo stato di fatto veniva a sua volta automaticamente catalogato fra i fuorilegge, e per costoro era in vigore l'immediata pena di morte mediante impalamento.
La ragazza bionda che avevo visto il mio primo giorno era una schiava, e quel suo collare metallico ne stabiliva con drammatica chiarezza la posi-zione. Anche il vestito che indossava era della foggia riservata agli schiavi, una sorta di uniforme i cui particolari secondari variavano da luogo a luo-go. A città delle Torri il colore e il disegno del tessuto, insieme a un carat-teristico marchio ben evidente, indicavano a chi apparteneva lo schiavo. Non l'avevo più rivista da allora, né avevo fatto domande su di lei, ma ogni tanto ripensavo al suo visetto attraente.
Fin dall'inizio m'ero accorto che la schiavitù era un argomento di con-versazione che non veniva quasi mai sfiorato, come se si considerasse di cattivo gusto parlarne, e decisi così che per levarmi certe curiosità sarebbe stato più saggio aspettare. Comunque seppi che ad uno schiavo anche colto era interdetto il compito d'istruire in alcun modo un uomo libero, perché ciò avrebbe instaurato un vincolo indecente fra un superiore ed un inferio-re. Sarebbe stato disonorevole per chiunque ritrovarsi moralmente in debi-to verso uno schiavo.
Il mio istinto mi suggeriva di fare tutto ciò che avrei potuto per combat-tere la schiavitù, e faticavo a tener la bocca chiusa sulla faccenda. Ne ac-cennai una volta sola e di sfuggita a mio padre, ed egli borbottò distratta-mente che il destino degli schiavi avrebbe potuto essere molto peggiore di quel che era, mormorando qualcosa che non compresi bene circa un luogo chiamato Torre Schiava.
Come un fulmine d'acciaio, inatteso e improvviso, la punta della lancia mi saettò così vicina da sfiorarmi trasversalmente il petto. Avevo fatto appena in tempo a ruotare su me stesso. Un attimo dopo il bronzo acumi-nato si conficcò nell'albero alle mie spalle, con tale violenza che, se m'a-vesse colpito, ne sarei stato passato da parte a parte. Imprecai, abbassando gli occhi sulla mia tunica: il tessuto era stato squarciato, e sotto di esso un taglio lungo e sottile mi segnava il torace come una linea rossa.
«Niente male!», commentò l'uomo che aveva scagliato l'arma. «È stato ben svelto a scansarsi, il giovanotto!»
Io feci una smorfia, detestando a morte quel sistema di controllare la mia
prontezza di riflessi. L'individuo la cui teoria era quella di far sì che io stessi sempre all'erta, era il mio istruttore d'armi, ed anch'egli aveva norme Tarl. Per rispetto o per distinguerlo da me, dovevo però rivolgermi a lui chiamandolo Olde Tarl, nome che anche in inglese avrebbe significato Tarl il Vecchio, sebbene vecchio non fosse affatto.
Fisicamente era un pezzo di marcantonio biondo e barbuto che avrebbe fatto la sua impressionante figura anche sulla prua di un drakkar vichingo, e nel camminare piazzava a terra i suoi piedi massicci come se il suolo su cui procedeva gli appartenesse per diritto divino. Tutta la sua struttura cor-porea e perfino l'espressione della faccia rivelava in lui il guerriero, un individuo capace di opporsi a chiunque altro e di maneggiare con mortale perizia ogni tipo d'arma bianca.
Accortosi che io ero decisamente robusto, non aveva mai avuto la mano delicata con me e, nei corpo a corpo con pugnale e spada, ce la metteva tutta per ridurmi a mal partito. Fin dal primo incontro con lui avevo però avuto la chiara impressione che fosse un coraggioso, per nulla arrogante malgrado la sua formidabile capacità d'uccidere. Rispettava l'onore altrui come fosse il suo, ed era di modi assai franchi. L'avevo trovato subito sim-patico.
Come ho già accennato, mi venivano imposte molte ore al giorno di ad-destramento con le armi, in particolare con la lancia e la spada. La forza di gravità inferiore mi consentiva di brandire le lance più pesanti con buona facilità, e di scagliarle con potenza e precisione più che soddisfacenti. A venti metri di distanza non mancavo mai di centrare bersagli larghi quanto una scodella, e con una forza tale da sfondare lo spessore di un normale scudo come fosse cartone. Quello che mi dava fastidio negli allenamenti era il dover maneggiare la spada anche con la sinistra, e all'occorrenza di lanciarla con la stessa mano.
«A che diavolo serve tutto questo?», obiettai una volta. «Vuoi che cerchi di diventare mancino?»
«Taci, pivello. Cosa credi che faresti se in battaglia ti ferissero al braccio destro? Getteresti la spada a terra e di lasceresti ammazzare come un inet-to?», rispose Olde Tarl.
«Ripiegherei su una posizione strategica più sicura,» borbottai. «A meno di non esser ferito anche alle gambe.»
«Fuggire?», tuonò lui, roteando gli occhi scandalizzato. «Un guerriero non fugge. Un guerriero resta dov'è, e si batte!»
Torm, che sedeva nei pressi col naso affondato fra le pagine di un mano-
scritto, alzò gli occhi e fissò il biondo colosso con faccia inespressiva.
«Un guerriero che abbia sale in zucca detesta l'idea di farsi macellare stupidamente,» sentenziò.
Olde Tarl sollevò la lancia e lo gratificò di un'occhiata così infuocata che il giovanotto preferì cambiare aria, uscendo dal campo di addestramento. Io presi un paio di altre lance e le tirai contro il bersaglio usando solo la mano sinistra, poi andai a raccoglierle e tornai nella posizione iniziale a passo di corsa. Dagli allenamenti uscivo sempre sfiatato, ma stavo facendo progressi che sorprendevano perfino me stesso. Oscuramente presagivo che le mie possibilità di sopravvivenza su Gor sarebbero dipese molto dal-l'uso delle armi.
La spada goreana era una specie di gladio lungo poco più d'un braccio, e stringerne l'impugnatura mi provocava una sensazione non spiacevole. Ad Oxford avevo fatto un po' di scherma alla sciabola, e nel college del New Hampshire qualche volta ero sceso in palestra a maneggiare il fioretto ma, dove mi trovavo adesso, l'uso della spada non era soltanto uno sport. M'impegnai ad adoperarla anche con la sinistra, però i risultati non furono soddisfacenti. In compenso, quando la stringevo nella destra, sapevo ren-dermi pericoloso.
Durante i nostri duelli alla spada, Olde Tarl non scherzava di certo, e né io né lui indossavamo corpetti protettivi. La sua lama mi arrivava pesan-temente addosso da tutte le direzioni, facendo scintille contro la mia, e tutti i giorni mi apriva nuovi tagli nel vestito quando non addirittura nella car-ne. Ogni volta i fendenti giunti a toccarmi erano accompagnati da un riso-nante «Oplà, colpito!» che mi irritava ancor più delle ferite e delle ammac-cature.
Verso la fine dell'allenamento divenni però abbastanza esperto da evitare quelle lievi umiliazioni, ed imparai a tenere alla larga la sua spada con rabbiose mosse difensive opponendo il furore lucido all'abilità del mio insegnante. Un pomeriggio approfittai istintivamente d'un suo passo falso squarciandogli sul petto una tunica nuova, con un fendente calcolato che tuttavia gli aprì un taglio sullo sterno. Avergli spillato il sangue mi di-spiacque, però gridai lo stesso: «Oplà, colpito!»
Olde Tarl si fece una grande risata e poi annuì più volte, abbracciandomi con affetto. Esser stato battuto da un suo allievo, e per di più con una mos-sa che aveva penato per farmi imparare, lo soddisfaceva. Quella sera stessa dichiarò che mi considerava tecnicamente grezzo ma comunque forte, e che il mio modo di duellare gli piaceva. Aveva l'aria orgogliosa d'un padre
che abbia insegnato al figlio come cavarsi d'impaccio nella vita.
M'ero addestrato bene anche all'uso dello scudo, arte che secondo Olde Tarl consisteva più nel deviare i colpi che nel fermarli, dato che ciò sbilan-ciava l'avversario e consentiva una maggior rapidità nel colpo di rimessa. L'altro solo riparo consentito ai guerrieri era l'elmo, e quando domandai per qual motivo non si usavano armature di nessun genere, venni a sapere che lo si doveva ancora una volta ad un espresso divieto dei Re-Sacerdoti.
All'apparenza costoro gradivano molto che gli scontri si risolvessero sempre con qualche cadavere, in base alla teoria che i più deboli dovevano lasciarci la pelle. Una sorta di selezione fondata sulla sopravvivenza del più forte, insomma. Giusto o sbagliato che fosse, mi stavo rendendo conto che i Re-Sacerdoti sapevano bene che genere di società volevano su Gor, e non usavano certo il guanto di velluto per ottenere i loro scopi.
In battaglia, la teoria della sopravvivenza del più forte veniva però inva-lidata dalla presenza degli archi e delle balestre, e tuttavia non si creda che anche ciò non fosse calcolato. L'arco era infatti considerato una variante che permetteva la contemporanea sopravvivenza del più abile. A mio avvi-so, una quantità di precauzioni e regole di questo genere rivelava che i Re-Sacerdoti temevano soprattutto azioni tese a minacciare la loro sicurezza. C'era da escludere che fondassero la loro stessa esistenza su regole di vita similari, combattendo in qualche modo fra loro e selezionando la propria razza con criteri così drastici.
Non divenni un Robin Hood con l'arco e la balestra, anzi mi fu dato ap-pena modo di provarne l'uso. Olde Tarl pareva considerarle armi poco a-datte per un guerriero forte, e le disprezzava. Essendo poco d'accordo con le sue baldanzose visioni dell'onore, cercai di fare un po' di pratica per con-to mio, ma per ottenere risultati apprezzabili sarebbe occorso assai più tempo di quel che avevo.
Venne infine il giorno in cui qualcosa nel modo di fare dei miei inse-gnanti cambiò impercettibilmente, e compresi che il mio periodo d'istru-zione volgeva al termine. Mi studiavano di sottecchi come se si chiedesse-ro se ero pronto, ma per cosa mi desideravano pronto era un fatto che non riuscivo ad immaginare. La lingua l'avevo imparata molto meglio di quan-to si rendevano conto quelli che si occupavano di me, al punto che spesso li sorprendevo a mormorare commenti sulla mia persona, erroneamente convinti che non capissi ancora bene il dialetto stretto di Città delle Torri. Invece parlavo il goreano, pensavo in goreano e perfino sognavo in quella lingua, il che mi stupiva.
Cominciai a sospettare che in me ci fosse un oscuro impulso a dimenti-care il mio passato terrestre. Queste riflessioni mi disturbavano, tanto che a volte andavo a prendere uno dei libri di mio padre scritti in inglese e me lo leggevo ad alta voce, per il solo piacere di risentire il suono della mia lin-gua. Ciò malgrado ero soddisfatto di poter capire alla perfezione gli abitan-ti di Gor, senza contare che quel linguaggio sembrava fatto apposta per imprecare ed abbondava di succosi insulti, cosa questa che mi divertiva.
Un pomeriggio, Olde Tarl entrò nella mia camera portando con sé un at-trezzo metallico lungo circa un metro, fornito di un'impugnatura in plastica e d'un cinturino per assicurarlo al polso. All'estremità dell'impugnatura c'era un interruttore di tipo non dissimile da quello di una torcia elettrica. Vidi che il mio istruttore ne aveva un altro identico appeso alla cintura.
«No, non si tratta di un'arma come potresti pensare,» disse, mostrando-melo. «Anche se può capitare di usarlo per difendersi.»
«Di che si tratta?»
«Questo è un pungolo per grifoni, ragazzo.»
Premette l'interruttore e tutta la parte metallica dell'oggetto s'illuminò di una vivissima luce gialla. Quando lo depose sul tavolo constatai che la superficie di legno non sembrava scaldarsi neppure a quel contatto. Olde Tarl lo spese e poi me lo porse. Mentre me lo metteva in mano però schiacciò ancora l'interruttore, ed all'istante fu come se qualcuno mi avesse ficcato il braccio in un truogolo di metallo fuso al calor bianco. Mandai un grido strozzato e vacillai indietro, convinto d'esser stato colpito mortal-mente. Subito dopo il dolore accecante scomparve, ma la scossa m'aveva ridotto ad un groviglio di nervi sconvolti e ci misi qualche minuto per ri-prendermi.
«Che tu possa schiattare!», ansimai. «Sono scherzi da farsi, questi? Se avessi il cuore debole ci sarei rimasto secco!»
Lui rise, per nulla preoccupato. «È solo per insegnarti che non si può scherzare con un pungolo da grifoni. Non è roba per bambini. Se ti sfiori una gamba nel bel mezzo di un'azione sei spacciato. Mi spiego? Avanti, provalo tu.»
Con una smorfia presi l'oggetto e mi allacciai la cinghia al polso, poi lo feci funzionare un paio di volte facendo la massima attenzione a come lo maneggiavo.
Olde Tarl mi disse di tenerlo al polso e uscì, facendomi segno di seguir-lo. Gli tenni dietro su per le scale della torre cilindrica e, dopo una dozzina di piani, uscimmo sul tetto attraverso una botola. Quel giorno il vento era
così forte che accostarsi al bordo privo di balaustra sarebbe stata un'impru-denza, e dovetti piantar bene i piedi al suolo. Granelli di polvere portati fin lì dalla pianura mi grandinavano sulla faccia, costringendomi a tenere le palpebre socchiuse.
Mentre mi chiedevo che razza di novità l'istruttore d'armi stesse medi-tando, lui si portò un fischietto alla bocca e vi soffiò dentro con tutta la forza dei suoi polmoni.
Fino ad allora non avevo mai visto un grifone in carne ed ossa, salvo al-cuni così lontani nel cielo da sembrare comuni rapaci, e conoscevo quei grandi uccelli solo per averli visti nelle illustrazioni dei libri e sui dipinti. Ne avevo studiato le tecniche di allevamento, la cura e la nutrizione, ed il modo di equipaggiarli coi finimenti. Se m'ero chiesto a cosa mi sarebbero servite quelle nozioni, ora stavo per impararlo.
I Goreani sono convinti che l'arte di condurre il grifone nel cielo, caval-cando sulla sua schiena, sia possibile solo a chi possiede una sorta di parti-colare sesto senso ed impossibile a chi non lo ha. Affermano che dominar-lo non è una cosa che s'impara, ma che invece viene ad istaurarsi fra l'uo-mo e la sua bestia come un rapporto empatico, il quale appare fra loro su-bito oppure mai più. Chi ha questo dono diventa un buon grifoniere, men-tre in caso contrario non lo si diviene neppure dopo mille anni di tentativi. Si dice che il grifone stesso sia in grado di cogliere quel «quid» nell'uomo, e che forzarlo a legarsi all'individuo sbagliato lo renda così ostile che so-vente lo assale all'istante e lo dilania a morte.
Mentre mi riparavo gli occhi dal pulviscolo, nell'aria risuonò un rumore schioccante, come quello di un enorme tappo che schizzasse via dalla bot-tiglia, ed un'ombra calò su di noi nascondendo buona parte del cielo. Alzai gli occhi e vidi due zampe i cui artigli sembravano lunghe spade d'acciaio: il grifone chiamato dal mio compagno incombeva sulla torre ad ali distese, quasi immobile nell'aria in quel suo lento e poderoso abbassarsi seguito alla picchiata e, nel vederne le dimensioni stupefacenti, ansimai e mi feci pallido.
«Stai alla larga dalle ali!», gridò Olde Tarl seccamente.
Non avevo bisogno del suo avvertimento, perché avevo già fatto d'istinto un paio di salti. A parte l'aspetto spaventoso del rapace, una di quelle e-normi vele pennute avrebbe potuto sbattermi via dal tetto della torre come uno scoiattolo.
Il grifone atterrò sullo spazio circolare, chiuse le ali e ci fissò con occhi neri come tizzoni d'inferno e larghi quanto un piatto. Malgrado la sua mo-
le, l'uccello era sorprendentemente leggero di movimenti, e sapevo che era dotato di una forza fisica superiore ad ogni immaginazione. Sulla Terra vi sono volatili di grosse dimensioni che trovano più facile prendere il volo gettandosi da un luogo elevato, ed altri che non riescono a sollevarsi dal suolo quando il loro peso è aumentato a causa di un pasto eccessivo. Il grifone di Gor ha invece una tale energia che riesce a prendere il volo, ap-pesantito dal suo grifoniere, con estrema facilità, anche se in ciò ha l'aiuto della minor gravità del pianeta.
Di piumaggio questi rapaci variano considerevolmente, e vengono sele-zionati con opportuni incroci sia per ottenere colori di bell'effetto che un alto grado d'intelligenza. In lingua goreana il loro nome significa Fratelli del Vento. Grifoni interamente neri sono preferibili ad altri per i voli not-turni sul territorio nemico, mentre quelli bianchi vengono usati nelle re-gioni nevose, a scopo mimetico. Olde Tarl affermò con sussiego che i veri guerrieri prediligono quelli multicolori, spregiando di nascondersi agli avversati con stratagemmi da donnette. Il tipo più comune di grifone ha un piumaggio di colore verde scuro e uniforme. Il suo aspetto è più o meno quello del suo piccolo omonimo terrestre, a parte una cresta di cartilagine sul cranio e le maggiori proporzioni dell'apertura alare rispetto al corpo.
I grifoni di Gor, da considerarsi tecnicamente animali semidomestici, sono dotati di una certa malizia che talvolta li rende temibili e si nutrono esclusivamente di carne. Non si è mai dato il caso di uno che abbia attacca-to il suo grifoniere. Non hanno paura di nulla eccetto che della scossa d'e-nergia dello sprone, uno stimolo a cui sono addestrati ad ubbidire fin da piccoli ad opera degli allevatori che s'occupano di loro.
I membri della Casta degli Allevatori sono degli specialisti che pongono molta cura nel farli arrivare all'età adulta ben ammaestrati ed affidabili, vista la loro potenziale pericolosità. Non sono gli unici animali montati dai guerrieri di Gor. Per gli spostamenti al suolo viene allevato un corpulento sauriano, il Tharlarion, che però è da considerarsi un ripiego per chi non può disporre di un grifone. Nella Città delle Torri non ne vidi neppure uno, ma seppi che più a meridione erano comunissimi, essendo animali poco adattabili alle zone fredde.
Olde Tarl non aveva perso tempo a montare sul suo grifone, dopo che il colossale volatile era atterrato sul tetto. Per farlo aveva usato la breve sca-letta, formata da cinque pioli di robusto cuoio, che penzolava a sinistra della sella e, una volta in groppa alla bestia, l'aveva ritirata. Quando fu ben saldo in arcioni, mi gettò un oggetto, che presi al volo ancor prima d'aver
capito cos'era. Si trattava di un fischietto uguale a quello che aveva usato poco prima, un richiamo da grifone, e fu soltanto allora che compresi le sue intenzioni: mi stava assegnando un rapace appena uscito dalle mani dei domatori.
Quel gesto equivaleva alla consegna delle chiavi di un'automobile nuo-va. Ogni fischietto emette infatti una nota, o una combinazione di note, caratteristica e riconoscibile fra migliaia d'altre, ed è il segnale a cui il gri-fone viene addestrato ad ubbidire con prontezza. Sapevo che fino a quel momento era stato usato soltanto dall'allevatore che gli aveva dato da mangiare, e che non aveva ancora permesso che nessun altro gli salisse in groppa.
Mi sentii chiudere la gola da un'immediata sensazione di panico e, per la seconda volta in vita mia dopo quella notte sulle White Mountains, provai la voglia di scappare ciecamente. Fui però sbalordito nell'accorgermi che una sola riflessione automatica era bastata a farmi ritrovare subito la cal-ma: «Se devo crepare - cosa che prima o poi accadrà - tanto vale che crepi in piedi.»
A quel pensiero dovetti sorridere fra me. Me l'ero già ripetuto più volte duellando alla spada con Olde Tarl, nei momenti in cui quasi mi convince-vo che quel grosso figlio d'un cane stava davvero cercando d'ammazzarmi. Era uno dei proverbi più diffusi fra i membri della Casta dei Guerrieri, ed evidentemente l'avevo assimilato. Mi portai il fischietto alle labbra e da esso scaturì un suono fatto di due note, così acute da sfiorare la soglia del-l'udibilità.
Quasi all'istante, oltre gli alberi e le torri più meridionali della città, un fantastico oggetto volante si sollevò dal suolo e si portò in quota con pode-rosi colpi d'ala. Era un grifone ancora più grosso del primo, che in breve ci individuò e fu sopra di noi. Fischiai ancora per confermargli che non stava sbagliando direzione, ma mi stavo domandando se mi avrebbe lasciato salire in sella oppure m'avrebbe rifiutato, attaccandomi a morte come si diceva che l'istinto li portasse a fare in queste situazioni.
Le grandi ali sbatterono quando rallentò la velocità, compiendo alcuni circoli intorno alla cima della torre, poi gli artigli micidiali strisciarono rumorosamente sul tetto lasciandovi lunghi solchi mentre atterrava contro la forza del vento. Era senza dubbio uno di quelli che venivano chiamati grifoni da guerra: enorme, feroce, ed armato di zampe che avrebbero potu-to scardinare la torretta d'un carro armato come una scatola di latta. Le sue penne erano color carbone.
Sollevò al cielo il suo rostro spaventoso e stridette, sbattendo alcune vol-te le ali, quindi girò la testa crestata a fissarmi con occhi di giaietto che scintillavano di luce nera. Il suo becco era semiaperto, e dentro di esso guizzava una lingua rossa lunga più d'un braccio. La cosa che accadde subito dopo fu così sconvolgente che potei reagire solo con un gemito strozzato perché, stridendo in preda ad una furia terribile, il rapace spalan-cò l'enorme becco e mi si precipitò addosso.
«Lo sprone! Usa lo sprone o sei morto!», feci appena in tempo a sentire che urlava Olde Tarl. La sua voce era incrinata dall'orrore.
IL GRIFONE
«Dovrò forse gettarmi giù dalla finestra, per trovare un po' di vera e de-finitiva pace?», singhiozzò drammaticamente Torm, levando al cielo le braccia magre.
Il giovanotto, il più improbabile membro della Casta degli Scrivani che vi fosse nella Città delle Torri, si copri il volto con un lembo della sua scalcinata tonaca blu come a ripudiare la vista della mia persona e del resto del mondo. I suoi slavati occhi celesti, piazzati ai lati di un secco naso ad uncino, emersero di nuovo dal riparo di stoffa per fissarmi con disperazio-ne.
«Cos'ho fatto per meritarmi questo? Sentiamo, cos'ho fatto di male?», mi accusò. «Perché proprio io, un emerito idiota, devo vedermi afflitto da altri idioti ancora peggiori? Forse lassù, nel luogo da cui tu sei piombato sulle mie spalle, si crede che io sia alla ricerca di oziosi stratagemmi per passare il tempo? Guarda qui, e là: carrettate di libri, di fascicoli, di pergamene, di appunti, e tutti ancora in attesa che io disponga d'un minuto libero per stu-diarmeli!»
«Non mi hanno detto che eri tanto occupato,» mi scusai.
«Non glielo hanno detto!», gemette lui. «Ho tanto da fare, che sono stato costretto a diventare sonnambulo per lavorare anche quando dormo. Guar-dati attorno. Sono trascorsi due anni dal giorno in cui mi feci prestare una scopa per spazzare, ma quel diabolico oggetto andò subito smarrito nella confusione, e da allora neppure uomini arditi e capaci sono riusciti a ritro-varlo più!»
Il locale era certamente il più caotico e disordinato che avessi mai visto su Gor. Sulla grande e malandata tavola di legno erano affastellate pile di fogli, boccette d'inchiostro in malcerto equilibrio, penne, carte assorbenti, matite smozzicate, libri rilegati a mano, tagliacarte, e un assortimento d'oggetti vari che ne occupavano il piano fino all'ultimo millimetro. Il pa-vimento era ingombro di scartafacci e manoscritti dai fogli sciolti, ammuc-chiati presso le pareti, mentre sugli scaffali di legno era già stato poggiato o compresso tutto ciò che era possibile farvi stare, compresi dei capi di biancheria sporca. Il letto in un angolo aveva l'aspetto di una cuccia per cani, e le lenzuola non dovevano esser state cambiate da mesi, sebbene dal colore avrei detto che ogni tanto le rivoltava, tutti i suoi oggetti personali erano seppelliti e dispersi in cumuli di ciarpame da cui le pile dei libri pol-verosi emergevano come torri di guardia.
Una delle due finestre della stanza aveva una forma stupidamente irrego-lare, forma venuta a crearsi dopo che Torni, irritato per la scarsa luce che ne entrava, l'aveva allargata a colpi di piccone raffazzonandone alla meglio l'intelaiatura. Sotto il tavolo, e così pericolosamente vicino ad esso da ab-brustolirne la vernice, un grosso braciere fungeva da impianto di riscalda-
mento. Bruciature annerite su tutte e quattro le gambe testimoniavano che i principi d'incendio erano una seccatura a cui ormai Torm sapeva porre rimedio.
Il giovanotto affermava che lì dentro d'inverno si piangeva per il freddo e d'estate non si dormiva per il caldo, mentre inconvenienti che andavano dalle cimici agli attacchi di malinconia gli insidiavano atrocemente le notti senza differenza di stagione. Adesso eravamo in inverno, il raffreddore era la battaglia che stava combattendo, e strisce umide su entrambe le maniche della sua tonaca da Scrivano rivelavano che possedeva un sistema rapido per pulirsi il naso senza fazzoletto. Le lamentele sul prezzo del carbone e le imprecazioni contro il freddo rappresentavano in quel periodo i tre quar-ti dei suoi discorsi più accalorati.
Fisicamente era magro, allampanato, e ricordava un fenicottero che ogni tanto sbattesse le ali squittendo contro le nequizie del mondo in cui era costretto a vivere. Sulla sua tonaca blu si potevano individuare, da qualsia-si parte la si osservasse, almeno una dozzina di scuciture alcune delle quali semiaggiustate da mani a dir poco inette. Uno dei suoi sandali di cuoio era stato raffazzonato con una legatura di spago, ed un capo di questo spago egli se lo trascinava dietro bestemmiando ogni volta che vi inciampava.
Nelle poche settimane trascorse dal mio arrivo su Gor, avevo avuto mo-do di constatare che quella gente metteva una cura meticolosa nell'abbi-gliamento, sfiorando talvolta la ricercatezza e l'eleganza più sofisticata, e teneva moltissimo alla propria apparenza esteriore ma, a quanto pareva, le inclinazioni di Torm viaggiavano su binari suoi personali. Di vanità come la pulizia e l'ordine nel vestire, venivano da lui rimproverati tutti coloro che, come me, avevano la sfortuna di dover sopportare le sue battute acide.
E tuttavia, malgrado l'estrema eccentricità e la petulanza esasperante, Torm era dotato di qualità che ero costretto ad ammirare: un genuino senso dell'umorismo, l'assoluta mancanza di ipocrisia, una gentilezza innata, l'a-more per le cose belle, ed il fatto che sapeva vedere gli aspetti buoni perfi-no delle persone meno meritevoli.
Amava teneramente i suoi libri maltenuti, ed amava gli autori che li ave-vano scritti secoli addietro. Apparteneva a quella ridotta schiera di cinici che sanno storcere la bocca di fronte al mondo intero e tuttavia poteva farsi venire le lacrime agli occhi osservando dei bambinetti che giocavano su un prato. E se il suo sguardo non riusciva a vedere gli strappi della veste che indossava, poteva però smarrirsi nel verde di una campagna incolta scor-gendovi bellezze che per altri non esistevano neppure. Per incredibile che
possa sembrare, non avevo mai dubitato che fosse proprio lui il miglior insegnante a Città delle Torri, come mio padre aveva dichiarato.
Con aria pigra e disgustata, il giovanotto frugò tra i mucchi di libri, met-tendosi carponi per farsi largo fra essi, e ne pescò fuori un volumetto dalla copertina metallica chiusa con un fermaglio. L'aprì all'altezza di un segna-libro e sedette accanto a me, mostrandomi la pagina. Era un abbecedario.
«Al-ka», esclamò, battendo l'indice su una delle figure disegnate a ma-no.
«Ael-kae,» ripetei io, sbagliando completamente la pronuncia.
Torm mi fissò ostentando un'enorme pazienza. «No, testone d'un anglo-sassone dalla bocca storta. Al-ka, al-ka!»
«El-kaa,» dissi, con uno sforzo.
Torm ridacchiò, scosse il capo e si voltò a recuperare un calamaio dal caos del tavolo. «Ecco qua,» mi informò. «Guardati un al-ka al naturale, amico, così potrai sapere cosa ti vuoterò sul capo, sull'anima di mio nonno, se sbaglierai ancora a pronunciare il suo dannatissimo nome!»
Le settimane seguenti mi videro immerso in un'intensa attività, interrotta appena dalle pause per i pasti e dal riposo notturno. Nei primi tempi, sol-tanto Torm e mio padre mi fecero da insegnanti, ma quando cominciai a masticare un po' la lingua goreana, anche altri, fra cui un paio originari della Terra, spesero con me un po' del loro tempo.
L'inglese di Torm era molto buono, seppure deformato dall'accento go-reano, dato che il giovanotto conosceva la mia lingua solo per averla stu-diata. Il fatto che Torm si fosse preso la briga d'imparare una lingua pres-soché inutile su quel pianeta, testimoniava di qual genere fosse la sua men-talità. Dichiarava di trovarla più ricca ed espressiva del goreano, di parlarla volentieri, e tanto gli era bastato per volersene impadronire.
Il programma scolastico che mi veniva imposto era meticoloso e pesan-te. Oltre allo studio dovevo applicarmi con la massima buona volontà negli esercizi fisici, ovvero nell'uso pratico delle armi bianche. Non mancavano le ore dedicate all'apprendimento degli usi e dei costumi della popolazione, né lo studio di piccoli strumenti di misura diffusi su Gor così come sulla Terra sono diffuse le bilance e le calcolatrici tascabili.
Buona parte degli oggetti che mi vedevo attorno erano di stampo medie-vale, ma non mancavano apparecchi che mi risultarono stupefacenti, come ad esempio il traduttore istantaneo, nel quale potevano essere immagazzi-nati vari linguaggi del pianeta e che ne forniva subito la traduzione vocale.
La lingua principale era il goreano comune, che tuttavia aveva a seconda delle regioni accenti e dialetti a non finire. C'erano però altre lingue del tutto diverse, spesso dal suono incredibile, ed un paio avevano tonalità e acuti che non credetti umanamente possibile imitare; sembravano piuttosto linguaggi di uccelli o di animali feroci. L'uso del traduttore istantaneo era semplice: bastava parlare in un microfono, e dall'altra parte usciva una sequela di parole nel linguaggio su cui si era regolato l'interruttore, a frasi separate. Oltre all'inglese, il suo piccolo cervello elettronico conteneva quattro delle principali lingue terrestri, praticamente complete, e una pro-nuncia passabile era sufficiente per ottenere la traduzione esatta. Sulla Ter-ra un gingillo di quel genere mi avrebbe fruttato miliardi.
«Sei un ignorante, non scordarlo mai. Ma chi sa d'essere un ignorante cammina sul sentiero della verità,» mi ripeteva Torm ad ogni mio più pic-colo passo in avanti. «Però una sana ignoranza non è tutto nella vita. Ad esempio, per uscire dal Sentiero della Verità, occorre essere anche un im-becille. Eppure, come faresti ad accorgerti che cammini su quella via se non provi ad uscirne sperimentalmente ogni tanto? Questo significa dun-que che la vera sapienza si raggiunge solo se si è davvero ignoranti e per di più imbecilli. E ora avanti con la lezione: usi e costumi di Gor. Che cos'è un Santuario? Quali sono le regole del Duello d'Onore? Quali diritti sono legati alla pietra della Casa? Tre minuti per tre risposte!»
Bene o male, cercando di utilizzare al meglio quel periodo d'istruzione forzata, il mio lavoro d'apprendimento andò avanti. Torm accoglieva i miei errori con strida di raccapriccio quand'erano di poco conto, e davanti a quelli più gravi esibiva un silenzio drammatico. Talvolta raccoglieva un libro, scelto fra quelli che non riscuotevano la sua approvazione, e me lo tirava addosso; talaltra minacciava di fare lo sciopero della fame finché non avessi studiato a fondo qualche argomento importante. Era deciso a far sì che io approfittassi nel miglior modo della sua emerita opera d'insegnan-te.
Cosa singolare, lo studio della religione era ridotto ai minimi termini, e ciò mi sembrò far parte di un'accorta politica tesa ad incoraggiare lo svi-luppo di arcani timori verso i Re-Sacerdoti. Torm rifiutava di parlarmene, borbottando che di quelle insulsaggini se ne occupavano gli Adepti.
Venni a sapere che costoro, organizzati in una casta abbastanza circo-scritta e chiusa, non incoraggiavano affatto la gente a partecipare alle loro cerimonie sacrificali. Mi vennero date delle preghiere da imparare a me-moria, ma non ne compresi molto perché erano in goreano antico; si tratta-
va della lingua usata in liturgia dagli Adepti, e pochi si davano la pena di studiarla. Con mio divertimento scopersi che Torm, sebbene si vantasse d'avere una memoria fenomenale, le aveva del tutto dimenticate ormai da anni. Non c'era troppo da meravigliarsene: non avevo bisogno di venire su Gor per sapere che fra letterati e religiosi la simpatia è sempre stata abba-stanza tiepida. E la Casta degli Scrivani abbondava di scettici inveterati.
La morale veniva invece insegnata da maestri che non avevano niente a che vedere con la Casta degli Adepti. Spettava infatti alla Casta dei Legi-slatori occuparsene, ed essi tramandavano quella in uso fin dai tempi più antichi senza tollerare modifiche o perfezionamenti. Fui istruito da uno di loro specialmente riguardo alle leggi che regolavano i comportamenti all'interno della Casta dei Guerrieri.
«Una cosa che non troverai scritta su questi scartafacci te la dirò adesso, amico,» stabilì Torm. «Tu non sarai mai accettato nella Casta degli Scri-vani.»
«Non credo sia questo che mio padre vuole. Dà troppa importanza agli allenamenti con le armi.»
«Non prendertela,» ghignò lui. «Qualche volta si scrive meglio con la spada.»
Il codice d'onore dei guerrieri era, in linea generale, improntato su com-portamenti di rude cavalleria, sulla fedeltà alla Pietra della Casa e sul ri-spetto verso il Capocasta chiamato Guerriero Anziano. Era un insieme di regole severe che obbligavano ad una galanteria e ad un senso dell'onore di stampo apprezzabile. Decisi che avrei potuto adeguarmi ad esso senza dif-ficoltà.
Mi stavano impartendo quella che veniva chiamata la Seconda Educa-zione, cosiddetta perché oltrepassava la conoscenza di stampo popolaresco basata sulle credenze empiriche, e quindi avrei dovuto giungere al livello dei letterati di Gor e dei membri delle Caste Alte, che avevano un atteg-giamento mentale più sofisticato.
Nelle Caste Basse il popolo riceveva invece la Terza Educazione, e fra le due c'erano delle differenze sorprendenti; ad esempio, la gente comune era incoraggiata a credere che il mondo fosse piatto come una pizza e che il sole gli girasse attorno spinto dal potere dei Re-Sacerdoti. Simili cose poco edificanti mi rafforzarono nella convinzione che si cercava di tener sotto controllo le Caste Basse con l'universale metodo di mantenerle nell'igno-ranza.
D'altra parte le Caste Alte, ovvero quelle dei Guerrieri, degli Ingegneri,
degli Scrivani, degli Adepti e dei Medici, ricevevano un'istruzione quanto più completa possibile. Per ciò che riguardava argomenti astronomici, si dava per scontato che un individuo abbastanza abile da poter restare in queste caste, capisse anche da solo realtà come la rotondità del pianeta, magari deducendola dall'osservazione dei tre piccoli satelliti di Gor.
Domandarsi come potevano coesistere nozioni elementari di carattere tanto diverso era inutile: avevo davanti a me una società in cui quel siste-ma veniva reso funzionante. Volendo andare per il sottile avrei potuto far notare che sulla Terra, nell'era della televisione, i governanti avevano e-scogitato ben altri metodi che l'aperta menzogna per tener sotto controllo le masse; ma Gor non era un mondo dove la sottigliezza fosse troppo ne-cessaria.
C'era da riflettere che, se i popolani ricevevano la Terza Educazione e gli intellettuali la Seconda, doveva esisterne una Prima. Le mie domande in merito però non ricevevano mai risposte molto soddisfacenti, anche se mio padre non tralasciava di erudirmi sui fatti sociali.
«La base politica ed economica della società,» mi spiegò una sera, «è la città-stato. Che siano ostili o amichevoli con le comunità adiacenti, le cit-tà-stato controllano tutta la terra che riescono ad annettersi ed espandono i loro confini il più possibile. Le zone improduttive, poco interessanti, im-possibili da governare oppure troppo vicine ai confini di un'altra città, ven-gono considerate terra di nessuno.»
«Com'è strutturato il sistema di governo all'interno delle città?», doman-dai.
«I governanti sono i membri più eminenti delle Caste Alte, gli Anziani di ciascuna di esse, oppure i loro delegati.»
«Non c'è qualche rappresentante del popolo?»
«Stai scherzando?», disse lui, fissandomi come se fossi ubriaco. «Nella Terza Educazione, sulla quale si fonda la mentalità del popolino, esistono dozzine di favole e di storie vere che testimoniano come ciò sarebbe inde-siderabile, dimostrando che, quando i membri delle Caste Basse vanno al potere, accadono disastri d'ogni sorta.»
Io cercai di mantenere una faccia impassibile e poco interessata, e lui continuò con un sorriso paziente:
«La struttura interna di ogni Casta è relativamente immobile, in quanto fondata sulla trasmissione ereditaria della posizione sociale, però non è congelata. Ad esempio, se durante il periodo scolastico un ragazzino mo-stra attitudini diverse da quelle del padre, ha modo di cambiare Casta. Inol-
tre, se la sua abilità personale è scarsa per qualunque Casta, egli decadrà fino ai livelli più bassi di essa senza che il suo rango di nascita influisca troppo su questo destino.»
«Capisco,» dissi, annuendo pensosamente.
«Dalle Caste Alte di una città, dunque, vengono eletti un Ordinatore e un Consiglio, che restano in carica per un periodo fisso. In tempo di crisi o di conflitto si nomina invece un Capo di Guerra, il quale instaura una sorta di legge marziale e non si ritira fino al termine dell'emergenza.»
«Ed è lui stesso a determinare quando e se la crisi è finita?», chiesi, scet-tico.
«Normalmente sì. La questione è definita nel codice di comportamento della Casta dei Guerrieri, che non consente azioni disoneste e disonorevo-li.»
«Ma, nel caso che un Capo di Guerra non intenda lasciare il potere?», insistei, immaginando che anche su Gor l'ambizione facesse mettere da parte qualsiasi principio etico e morale.
«Chi lo facesse sarebbe abbandonato dai suoi seguaci. La tradizione vuole che egli venga lasciato da solo nel suo palazzo, e che il popolo infe-rocito entri ad ucciderlo.»
Cercai d'immaginare una scena di quel genere, ma mi sembrava una so-luzione troppo semplicistica per avvenimenti che nella realtà umana sono sempre assai complessi.
Mio padre dovette leggermi il dubbio in faccia, perché riprese: «Certo, può capitare che per un motivo o per l'altro le cose vadano diversamente. Ad esempio, il Capo di Guerra che riesce a formarsi un seguito di fedelis-simi, o di uomini prezzolati che lo sostengono, può debellare ogni opposi-zione e restare al potere. In questo caso egli assume la carica di Tiranno, e regna finché non viene deposto con la forza.» Nel dire questo la sua faccia si scurì al punto da farmi pensare che egli stesso conosceva un uomo simi-le. Molto lentamente ripeté: «Sì, finché qualcuno non lo spodesta con la forza.»
Le mie lezioni proseguirono interminabili, alleviate soltanto dalla pre-senza di Torm che me le rendeva meno faticose da sopportare.
Il pianeta Gor è ancora meno sferico della Terra. L'emisfero meridionale è più largo e panciuto di quello settentrionale, come una pera, e la sua ro-tazione avviene al contrario rispetto a quella del nostro pianeta. All'atto pratico la cosa non fa alcuna differenza, dato che la direzione da cui sorge
il sole viene chiamata lo stesso Levante o Culla dell'Alba. Il giorno ha pressappoco la stessa durata di quello terrestre, ed anche l'inclinazione del suo asse è quasi simile, cosa che lo fornisce di stagioni equivalenti. Ha due calotte glaciali, due fasce temperate, ed una zona equatoriale torrida. Con mia sorpresa scoprii che sulle carte geografiche figurava una quantità di zone bianche, ancora inesplorate. Ma dovetti ugualmente studiare a memo-ria innumerevoli nomi di fiumi, laghi, mari, catene montuose, valli e peni-sole sparse ovunque.
L'economia era fondata sull'agricoltura, il piccolo commercio e l'artigia-nato. Il prodotto più coltivato era una varietà di grano chiamata Sa-Tarna, ovvero Sorella della Vita. Abbastanza singolare, il nome con cui veniva indicato il cibo in generale era Sa-tassna, cioè Madre della Vita, e nomi consimili avevano i prodotti considerati indispensabili alla vita umana. La caccia era ritenuta una nobile attività, un po' come accadeva anche sulla Terra nell'epoca pre-industriale. Tutto ciò mi portava a supporre che il Vi-aggio dell'Acquisto fosse un'istituzione che durava da molti millenni, gra-zie alla quale Gor era stato popolato, anche se non riuscivo a trovare molta somiglianza fra il goreano e i linguaggi terrestri a me noti.
Avevo tuttavia troppo poco tempo per speculare e pormi domande di quel genere. L'addestramento che mi veniva imposto sembrava imperniato sull'idea di trasformarmi in un goreano in poche settimane oppure di farmi crepare nel tentativo. Devo riconoscere che provavo una cupa soddisfazio-ne nel vedermi trascinato ai miei limiti di resistenza, quasi che stessi u-scendo da un bozzolo fra gemiti e fatiche per trasformarmi in una persona più capace e padrona di sé. Ma cosa mi si voleva far diventare? Ancora non lo immaginavo. Le persone di cui andavo assimilando lo scibile appar-tenevano per lo più alla Casta degli Scrivani e a quella dei Guerrieri. I pri-mi includevano tutti coloro che avevano mansioni da impiegato, oltre al personale scolastico, e fra essi c'erano enormi differenze di posizione so-ciale. Dei secondi ancora non ero in grado di sapere molto.
Incontrai poche donne in quei giorni. Anch'esse erano inquadrate nelle rispettive Caste, potevano scendere o salire di rango a seconda delle loro capacità e cambiare casta allorché si sposavano, ma per esse gli usi varia-vano da città a città. Tutti gli individui che vedevo in giro sembravano discendere da antenati terrestri dei quali recavano ancora evidenti le carat-teristiche razziali e, a quanto avevo capito, il Viaggio dell'Acquisto si limi-tava a trasferire su Gor gente che poi veniva lasciata a se stessa, come a-nimali in una riserva da ripopolare.
Dalle facce che osservavo a Città delle Torri, ero giunto alla conclusione che i principali ceppi etnici erano stati due: quello nordico e quello medi-terraneo, quest'ultimo enormemente più diffuso e comprendente tutti i tipi razziali centro europei e del mediterraneo orientale. Non vedevo in città neppure un negro o un asiatico. I vari ceppi s'erano però incrociati e me-scolati fra loro per millenni, ed il goreano medio era scuro di capelli, robu-sto e abbastanza alto.
La lingua non conservava tracce terrestri o quasi, ed ero felice quando m'imbattevo in parole che derivavano chiaramente da una radice greca, latina o celtica. Se fossi stato un linguista, credo che avrei trovato affinità meno evidenti nella pronuncia e struttura dei suoni, individuando forse origini europee in parole ormai molto mutate. Venni fra l'altro a sapere che la discendenza terrestre era una nozione facente parte della Seconda Istru-zione, ovvero che si preferiva tenerne all'oscuro la massa degli appartenen-ti alle Caste Basse.
«Perché questa faccenda non viene divulgata fra la gente?», chiesi un giorno a Torm.
«Non è evidente?», borbottò lui, distratto.
«Per nulla. Che ragioni ci sono?»
Torm socchiuse gli occhi e mi fissò per un minuto buono, come riflet-tendoci su. Infine schioccò le dita.
«In verità ti dico che hai ragione tu, amico: le ragioni non sono affatto evidenti, almeno così a prima vista. Hai colto nel segno.»
«E allora cosa mi dici?»
«Dico di continuare questa lezione. Tu grufoli nella cultura disordinata-mente, come un maiale dentro un mucchio di spazzatura. E i maiali troppo avidi possono spaccarsi i denti sopra un sasso,» fu tutta la risposta che mi diede.
Più andavo avanti e più mi convincevo che il sistema delle caste rispon-deva perfettamente agli scopi dei suoi creatori. Instaurava un ordine socia-le, premiava i meritevoli, puniva gli incapaci e i ribelli. Un signorotto me-dievale l'avrebbe approvato di corsa, dato che corrispondeva in pieno alle idee di quegli aristocratici rinascimentali che amavano definirsi di larghe vedute e amici del popolo... a patto che il popolo sapesse stare al suo po-sto.
A malincuore dovevo riconoscere che in effetti funzionava, e forse pro-prio perché era tanto rigido e duro. Ma un particolare non mi andava e non mi sarebbe mai andato giù, perché su Gor il sistema della schiavitù era
legalizzato. Due sole categorie esulavano dall'ingranaggio delle caste, a parte i Re-Sacerdoti, e queste erano i fuorilegge e gli schiavi. Chi rifiutava questo stato di fatto veniva a sua volta automaticamente catalogato fra i fuorilegge, e per costoro era in vigore l'immediata pena di morte mediante impalamento.
La ragazza bionda che avevo visto il mio primo giorno era una schiava, e quel suo collare metallico ne stabiliva con drammatica chiarezza la posi-zione. Anche il vestito che indossava era della foggia riservata agli schiavi, una sorta di uniforme i cui particolari secondari variavano da luogo a luo-go. A città delle Torri il colore e il disegno del tessuto, insieme a un carat-teristico marchio ben evidente, indicavano a chi apparteneva lo schiavo. Non l'avevo più rivista da allora, né avevo fatto domande su di lei, ma ogni tanto ripensavo al suo visetto attraente.
Fin dall'inizio m'ero accorto che la schiavitù era un argomento di con-versazione che non veniva quasi mai sfiorato, come se si considerasse di cattivo gusto parlarne, e decisi così che per levarmi certe curiosità sarebbe stato più saggio aspettare. Comunque seppi che ad uno schiavo anche colto era interdetto il compito d'istruire in alcun modo un uomo libero, perché ciò avrebbe instaurato un vincolo indecente fra un superiore ed un inferio-re. Sarebbe stato disonorevole per chiunque ritrovarsi moralmente in debi-to verso uno schiavo.
Il mio istinto mi suggeriva di fare tutto ciò che avrei potuto per combat-tere la schiavitù, e faticavo a tener la bocca chiusa sulla faccenda. Ne ac-cennai una volta sola e di sfuggita a mio padre, ed egli borbottò distratta-mente che il destino degli schiavi avrebbe potuto essere molto peggiore di quel che era, mormorando qualcosa che non compresi bene circa un luogo chiamato Torre Schiava.
Come un fulmine d'acciaio, inatteso e improvviso, la punta della lancia mi saettò così vicina da sfiorarmi trasversalmente il petto. Avevo fatto appena in tempo a ruotare su me stesso. Un attimo dopo il bronzo acumi-nato si conficcò nell'albero alle mie spalle, con tale violenza che, se m'a-vesse colpito, ne sarei stato passato da parte a parte. Imprecai, abbassando gli occhi sulla mia tunica: il tessuto era stato squarciato, e sotto di esso un taglio lungo e sottile mi segnava il torace come una linea rossa.
«Niente male!», commentò l'uomo che aveva scagliato l'arma. «È stato ben svelto a scansarsi, il giovanotto!»
Io feci una smorfia, detestando a morte quel sistema di controllare la mia
prontezza di riflessi. L'individuo la cui teoria era quella di far sì che io stessi sempre all'erta, era il mio istruttore d'armi, ed anch'egli aveva norme Tarl. Per rispetto o per distinguerlo da me, dovevo però rivolgermi a lui chiamandolo Olde Tarl, nome che anche in inglese avrebbe significato Tarl il Vecchio, sebbene vecchio non fosse affatto.
Fisicamente era un pezzo di marcantonio biondo e barbuto che avrebbe fatto la sua impressionante figura anche sulla prua di un drakkar vichingo, e nel camminare piazzava a terra i suoi piedi massicci come se il suolo su cui procedeva gli appartenesse per diritto divino. Tutta la sua struttura cor-porea e perfino l'espressione della faccia rivelava in lui il guerriero, un individuo capace di opporsi a chiunque altro e di maneggiare con mortale perizia ogni tipo d'arma bianca.
Accortosi che io ero decisamente robusto, non aveva mai avuto la mano delicata con me e, nei corpo a corpo con pugnale e spada, ce la metteva tutta per ridurmi a mal partito. Fin dal primo incontro con lui avevo però avuto la chiara impressione che fosse un coraggioso, per nulla arrogante malgrado la sua formidabile capacità d'uccidere. Rispettava l'onore altrui come fosse il suo, ed era di modi assai franchi. L'avevo trovato subito sim-patico.
Come ho già accennato, mi venivano imposte molte ore al giorno di ad-destramento con le armi, in particolare con la lancia e la spada. La forza di gravità inferiore mi consentiva di brandire le lance più pesanti con buona facilità, e di scagliarle con potenza e precisione più che soddisfacenti. A venti metri di distanza non mancavo mai di centrare bersagli larghi quanto una scodella, e con una forza tale da sfondare lo spessore di un normale scudo come fosse cartone. Quello che mi dava fastidio negli allenamenti era il dover maneggiare la spada anche con la sinistra, e all'occorrenza di lanciarla con la stessa mano.
«A che diavolo serve tutto questo?», obiettai una volta. «Vuoi che cerchi di diventare mancino?»
«Taci, pivello. Cosa credi che faresti se in battaglia ti ferissero al braccio destro? Getteresti la spada a terra e di lasceresti ammazzare come un inet-to?», rispose Olde Tarl.
«Ripiegherei su una posizione strategica più sicura,» borbottai. «A meno di non esser ferito anche alle gambe.»
«Fuggire?», tuonò lui, roteando gli occhi scandalizzato. «Un guerriero non fugge. Un guerriero resta dov'è, e si batte!»
Torm, che sedeva nei pressi col naso affondato fra le pagine di un mano-
scritto, alzò gli occhi e fissò il biondo colosso con faccia inespressiva.
«Un guerriero che abbia sale in zucca detesta l'idea di farsi macellare stupidamente,» sentenziò.
Olde Tarl sollevò la lancia e lo gratificò di un'occhiata così infuocata che il giovanotto preferì cambiare aria, uscendo dal campo di addestramento. Io presi un paio di altre lance e le tirai contro il bersaglio usando solo la mano sinistra, poi andai a raccoglierle e tornai nella posizione iniziale a passo di corsa. Dagli allenamenti uscivo sempre sfiatato, ma stavo facendo progressi che sorprendevano perfino me stesso. Oscuramente presagivo che le mie possibilità di sopravvivenza su Gor sarebbero dipese molto dal-l'uso delle armi.
La spada goreana era una specie di gladio lungo poco più d'un braccio, e stringerne l'impugnatura mi provocava una sensazione non spiacevole. Ad Oxford avevo fatto un po' di scherma alla sciabola, e nel college del New Hampshire qualche volta ero sceso in palestra a maneggiare il fioretto ma, dove mi trovavo adesso, l'uso della spada non era soltanto uno sport. M'impegnai ad adoperarla anche con la sinistra, però i risultati non furono soddisfacenti. In compenso, quando la stringevo nella destra, sapevo ren-dermi pericoloso.
Durante i nostri duelli alla spada, Olde Tarl non scherzava di certo, e né io né lui indossavamo corpetti protettivi. La sua lama mi arrivava pesan-temente addosso da tutte le direzioni, facendo scintille contro la mia, e tutti i giorni mi apriva nuovi tagli nel vestito quando non addirittura nella car-ne. Ogni volta i fendenti giunti a toccarmi erano accompagnati da un riso-nante «Oplà, colpito!» che mi irritava ancor più delle ferite e delle ammac-cature.
Verso la fine dell'allenamento divenni però abbastanza esperto da evitare quelle lievi umiliazioni, ed imparai a tenere alla larga la sua spada con rabbiose mosse difensive opponendo il furore lucido all'abilità del mio insegnante. Un pomeriggio approfittai istintivamente d'un suo passo falso squarciandogli sul petto una tunica nuova, con un fendente calcolato che tuttavia gli aprì un taglio sullo sterno. Avergli spillato il sangue mi di-spiacque, però gridai lo stesso: «Oplà, colpito!»
Olde Tarl si fece una grande risata e poi annuì più volte, abbracciandomi con affetto. Esser stato battuto da un suo allievo, e per di più con una mos-sa che aveva penato per farmi imparare, lo soddisfaceva. Quella sera stessa dichiarò che mi considerava tecnicamente grezzo ma comunque forte, e che il mio modo di duellare gli piaceva. Aveva l'aria orgogliosa d'un padre
che abbia insegnato al figlio come cavarsi d'impaccio nella vita.
M'ero addestrato bene anche all'uso dello scudo, arte che secondo Olde Tarl consisteva più nel deviare i colpi che nel fermarli, dato che ciò sbilan-ciava l'avversario e consentiva una maggior rapidità nel colpo di rimessa. L'altro solo riparo consentito ai guerrieri era l'elmo, e quando domandai per qual motivo non si usavano armature di nessun genere, venni a sapere che lo si doveva ancora una volta ad un espresso divieto dei Re-Sacerdoti.
All'apparenza costoro gradivano molto che gli scontri si risolvessero sempre con qualche cadavere, in base alla teoria che i più deboli dovevano lasciarci la pelle. Una sorta di selezione fondata sulla sopravvivenza del più forte, insomma. Giusto o sbagliato che fosse, mi stavo rendendo conto che i Re-Sacerdoti sapevano bene che genere di società volevano su Gor, e non usavano certo il guanto di velluto per ottenere i loro scopi.
In battaglia, la teoria della sopravvivenza del più forte veniva però inva-lidata dalla presenza degli archi e delle balestre, e tuttavia non si creda che anche ciò non fosse calcolato. L'arco era infatti considerato una variante che permetteva la contemporanea sopravvivenza del più abile. A mio avvi-so, una quantità di precauzioni e regole di questo genere rivelava che i Re-Sacerdoti temevano soprattutto azioni tese a minacciare la loro sicurezza. C'era da escludere che fondassero la loro stessa esistenza su regole di vita similari, combattendo in qualche modo fra loro e selezionando la propria razza con criteri così drastici.
Non divenni un Robin Hood con l'arco e la balestra, anzi mi fu dato ap-pena modo di provarne l'uso. Olde Tarl pareva considerarle armi poco a-datte per un guerriero forte, e le disprezzava. Essendo poco d'accordo con le sue baldanzose visioni dell'onore, cercai di fare un po' di pratica per con-to mio, ma per ottenere risultati apprezzabili sarebbe occorso assai più tempo di quel che avevo.
Venne infine il giorno in cui qualcosa nel modo di fare dei miei inse-gnanti cambiò impercettibilmente, e compresi che il mio periodo d'istru-zione volgeva al termine. Mi studiavano di sottecchi come se si chiedesse-ro se ero pronto, ma per cosa mi desideravano pronto era un fatto che non riuscivo ad immaginare. La lingua l'avevo imparata molto meglio di quan-to si rendevano conto quelli che si occupavano di me, al punto che spesso li sorprendevo a mormorare commenti sulla mia persona, erroneamente convinti che non capissi ancora bene il dialetto stretto di Città delle Torri. Invece parlavo il goreano, pensavo in goreano e perfino sognavo in quella lingua, il che mi stupiva.
Cominciai a sospettare che in me ci fosse un oscuro impulso a dimenti-care il mio passato terrestre. Queste riflessioni mi disturbavano, tanto che a volte andavo a prendere uno dei libri di mio padre scritti in inglese e me lo leggevo ad alta voce, per il solo piacere di risentire il suono della mia lin-gua. Ciò malgrado ero soddisfatto di poter capire alla perfezione gli abitan-ti di Gor, senza contare che quel linguaggio sembrava fatto apposta per imprecare ed abbondava di succosi insulti, cosa questa che mi divertiva.
Un pomeriggio, Olde Tarl entrò nella mia camera portando con sé un at-trezzo metallico lungo circa un metro, fornito di un'impugnatura in plastica e d'un cinturino per assicurarlo al polso. All'estremità dell'impugnatura c'era un interruttore di tipo non dissimile da quello di una torcia elettrica. Vidi che il mio istruttore ne aveva un altro identico appeso alla cintura.
«No, non si tratta di un'arma come potresti pensare,» disse, mostrando-melo. «Anche se può capitare di usarlo per difendersi.»
«Di che si tratta?»
«Questo è un pungolo per grifoni, ragazzo.»
Premette l'interruttore e tutta la parte metallica dell'oggetto s'illuminò di una vivissima luce gialla. Quando lo depose sul tavolo constatai che la superficie di legno non sembrava scaldarsi neppure a quel contatto. Olde Tarl lo spese e poi me lo porse. Mentre me lo metteva in mano però schiacciò ancora l'interruttore, ed all'istante fu come se qualcuno mi avesse ficcato il braccio in un truogolo di metallo fuso al calor bianco. Mandai un grido strozzato e vacillai indietro, convinto d'esser stato colpito mortal-mente. Subito dopo il dolore accecante scomparve, ma la scossa m'aveva ridotto ad un groviglio di nervi sconvolti e ci misi qualche minuto per ri-prendermi.
«Che tu possa schiattare!», ansimai. «Sono scherzi da farsi, questi? Se avessi il cuore debole ci sarei rimasto secco!»
Lui rise, per nulla preoccupato. «È solo per insegnarti che non si può scherzare con un pungolo da grifoni. Non è roba per bambini. Se ti sfiori una gamba nel bel mezzo di un'azione sei spacciato. Mi spiego? Avanti, provalo tu.»
Con una smorfia presi l'oggetto e mi allacciai la cinghia al polso, poi lo feci funzionare un paio di volte facendo la massima attenzione a come lo maneggiavo.
Olde Tarl mi disse di tenerlo al polso e uscì, facendomi segno di seguir-lo. Gli tenni dietro su per le scale della torre cilindrica e, dopo una dozzina di piani, uscimmo sul tetto attraverso una botola. Quel giorno il vento era
così forte che accostarsi al bordo privo di balaustra sarebbe stata un'impru-denza, e dovetti piantar bene i piedi al suolo. Granelli di polvere portati fin lì dalla pianura mi grandinavano sulla faccia, costringendomi a tenere le palpebre socchiuse.
Mentre mi chiedevo che razza di novità l'istruttore d'armi stesse medi-tando, lui si portò un fischietto alla bocca e vi soffiò dentro con tutta la forza dei suoi polmoni.
Fino ad allora non avevo mai visto un grifone in carne ed ossa, salvo al-cuni così lontani nel cielo da sembrare comuni rapaci, e conoscevo quei grandi uccelli solo per averli visti nelle illustrazioni dei libri e sui dipinti. Ne avevo studiato le tecniche di allevamento, la cura e la nutrizione, ed il modo di equipaggiarli coi finimenti. Se m'ero chiesto a cosa mi sarebbero servite quelle nozioni, ora stavo per impararlo.
I Goreani sono convinti che l'arte di condurre il grifone nel cielo, caval-cando sulla sua schiena, sia possibile solo a chi possiede una sorta di parti-colare sesto senso ed impossibile a chi non lo ha. Affermano che dominar-lo non è una cosa che s'impara, ma che invece viene ad istaurarsi fra l'uo-mo e la sua bestia come un rapporto empatico, il quale appare fra loro su-bito oppure mai più. Chi ha questo dono diventa un buon grifoniere, men-tre in caso contrario non lo si diviene neppure dopo mille anni di tentativi. Si dice che il grifone stesso sia in grado di cogliere quel «quid» nell'uomo, e che forzarlo a legarsi all'individuo sbagliato lo renda così ostile che so-vente lo assale all'istante e lo dilania a morte.
Mentre mi riparavo gli occhi dal pulviscolo, nell'aria risuonò un rumore schioccante, come quello di un enorme tappo che schizzasse via dalla bot-tiglia, ed un'ombra calò su di noi nascondendo buona parte del cielo. Alzai gli occhi e vidi due zampe i cui artigli sembravano lunghe spade d'acciaio: il grifone chiamato dal mio compagno incombeva sulla torre ad ali distese, quasi immobile nell'aria in quel suo lento e poderoso abbassarsi seguito alla picchiata e, nel vederne le dimensioni stupefacenti, ansimai e mi feci pallido.
«Stai alla larga dalle ali!», gridò Olde Tarl seccamente.
Non avevo bisogno del suo avvertimento, perché avevo già fatto d'istinto un paio di salti. A parte l'aspetto spaventoso del rapace, una di quelle e-normi vele pennute avrebbe potuto sbattermi via dal tetto della torre come uno scoiattolo.
Il grifone atterrò sullo spazio circolare, chiuse le ali e ci fissò con occhi neri come tizzoni d'inferno e larghi quanto un piatto. Malgrado la sua mo-
le, l'uccello era sorprendentemente leggero di movimenti, e sapevo che era dotato di una forza fisica superiore ad ogni immaginazione. Sulla Terra vi sono volatili di grosse dimensioni che trovano più facile prendere il volo gettandosi da un luogo elevato, ed altri che non riescono a sollevarsi dal suolo quando il loro peso è aumentato a causa di un pasto eccessivo. Il grifone di Gor ha invece una tale energia che riesce a prendere il volo, ap-pesantito dal suo grifoniere, con estrema facilità, anche se in ciò ha l'aiuto della minor gravità del pianeta.
Di piumaggio questi rapaci variano considerevolmente, e vengono sele-zionati con opportuni incroci sia per ottenere colori di bell'effetto che un alto grado d'intelligenza. In lingua goreana il loro nome significa Fratelli del Vento. Grifoni interamente neri sono preferibili ad altri per i voli not-turni sul territorio nemico, mentre quelli bianchi vengono usati nelle re-gioni nevose, a scopo mimetico. Olde Tarl affermò con sussiego che i veri guerrieri prediligono quelli multicolori, spregiando di nascondersi agli avversati con stratagemmi da donnette. Il tipo più comune di grifone ha un piumaggio di colore verde scuro e uniforme. Il suo aspetto è più o meno quello del suo piccolo omonimo terrestre, a parte una cresta di cartilagine sul cranio e le maggiori proporzioni dell'apertura alare rispetto al corpo.
I grifoni di Gor, da considerarsi tecnicamente animali semidomestici, sono dotati di una certa malizia che talvolta li rende temibili e si nutrono esclusivamente di carne. Non si è mai dato il caso di uno che abbia attacca-to il suo grifoniere. Non hanno paura di nulla eccetto che della scossa d'e-nergia dello sprone, uno stimolo a cui sono addestrati ad ubbidire fin da piccoli ad opera degli allevatori che s'occupano di loro.
I membri della Casta degli Allevatori sono degli specialisti che pongono molta cura nel farli arrivare all'età adulta ben ammaestrati ed affidabili, vista la loro potenziale pericolosità. Non sono gli unici animali montati dai guerrieri di Gor. Per gli spostamenti al suolo viene allevato un corpulento sauriano, il Tharlarion, che però è da considerarsi un ripiego per chi non può disporre di un grifone. Nella Città delle Torri non ne vidi neppure uno, ma seppi che più a meridione erano comunissimi, essendo animali poco adattabili alle zone fredde.
Olde Tarl non aveva perso tempo a montare sul suo grifone, dopo che il colossale volatile era atterrato sul tetto. Per farlo aveva usato la breve sca-letta, formata da cinque pioli di robusto cuoio, che penzolava a sinistra della sella e, una volta in groppa alla bestia, l'aveva ritirata. Quando fu ben saldo in arcioni, mi gettò un oggetto, che presi al volo ancor prima d'aver
capito cos'era. Si trattava di un fischietto uguale a quello che aveva usato poco prima, un richiamo da grifone, e fu soltanto allora che compresi le sue intenzioni: mi stava assegnando un rapace appena uscito dalle mani dei domatori.
Quel gesto equivaleva alla consegna delle chiavi di un'automobile nuo-va. Ogni fischietto emette infatti una nota, o una combinazione di note, caratteristica e riconoscibile fra migliaia d'altre, ed è il segnale a cui il gri-fone viene addestrato ad ubbidire con prontezza. Sapevo che fino a quel momento era stato usato soltanto dall'allevatore che gli aveva dato da mangiare, e che non aveva ancora permesso che nessun altro gli salisse in groppa.
Mi sentii chiudere la gola da un'immediata sensazione di panico e, per la seconda volta in vita mia dopo quella notte sulle White Mountains, provai la voglia di scappare ciecamente. Fui però sbalordito nell'accorgermi che una sola riflessione automatica era bastata a farmi ritrovare subito la cal-ma: «Se devo crepare - cosa che prima o poi accadrà - tanto vale che crepi in piedi.»
A quel pensiero dovetti sorridere fra me. Me l'ero già ripetuto più volte duellando alla spada con Olde Tarl, nei momenti in cui quasi mi convince-vo che quel grosso figlio d'un cane stava davvero cercando d'ammazzarmi. Era uno dei proverbi più diffusi fra i membri della Casta dei Guerrieri, ed evidentemente l'avevo assimilato. Mi portai il fischietto alle labbra e da esso scaturì un suono fatto di due note, così acute da sfiorare la soglia del-l'udibilità.
Quasi all'istante, oltre gli alberi e le torri più meridionali della città, un fantastico oggetto volante si sollevò dal suolo e si portò in quota con pode-rosi colpi d'ala. Era un grifone ancora più grosso del primo, che in breve ci individuò e fu sopra di noi. Fischiai ancora per confermargli che non stava sbagliando direzione, ma mi stavo domandando se mi avrebbe lasciato salire in sella oppure m'avrebbe rifiutato, attaccandomi a morte come si diceva che l'istinto li portasse a fare in queste situazioni.
Le grandi ali sbatterono quando rallentò la velocità, compiendo alcuni circoli intorno alla cima della torre, poi gli artigli micidiali strisciarono rumorosamente sul tetto lasciandovi lunghi solchi mentre atterrava contro la forza del vento. Era senza dubbio uno di quelli che venivano chiamati grifoni da guerra: enorme, feroce, ed armato di zampe che avrebbero potu-to scardinare la torretta d'un carro armato come una scatola di latta. Le sue penne erano color carbone.
Sollevò al cielo il suo rostro spaventoso e stridette, sbattendo alcune vol-te le ali, quindi girò la testa crestata a fissarmi con occhi di giaietto che scintillavano di luce nera. Il suo becco era semiaperto, e dentro di esso guizzava una lingua rossa lunga più d'un braccio. La cosa che accadde subito dopo fu così sconvolgente che potei reagire solo con un gemito strozzato perché, stridendo in preda ad una furia terribile, il rapace spalan-cò l'enorme becco e mi si precipitò addosso.
«Lo sprone! Usa lo sprone o sei morto!», feci appena in tempo a sentire che urlava Olde Tarl. La sua voce era incrinata dall'orrore.
giovedì 16 dicembre 2010
martedì 14 dicembre 2010
lunedì 13 dicembre 2010
domenica 12 dicembre 2010
Helen of Troy (Part 7)
quando la fierezza della sottomissione sara in voi...allora piu nulla ci sara da cercare e temere di voi stesse
mercoledì 8 dicembre 2010
martedì 7 dicembre 2010
La Sessione

Davver non mi piace la sessione, pare in testa mia come il gioco.
Siffatta azione non prevede l’accendersi del mio personale fuoco
Più di altro in cuor mio c’è il padroneggiar del tuo io.
Sia il risveglio, il di, o la sera, imperiosa notte impera.
Fosse tutto lì racchiuso un saluto rendendoti l’uso.
Più dell’alito che respiri anche e soprattutto i tuoi sospiri.
Cosi come il fuoco d’ara, bruci sacra la vita amara
Prendo tutto ciò che in te sta, un briciolo un immenso respir d’eternità
giovedì 2 dicembre 2010
..Vi conosco...
...io vi conosco quando vi leggete lieve la malinconia, e la passione del non andare via, finche vi sale da dentro l'anima..... ma io vi conosco vi sono notti in cui vi urlate dentro, e cosi forte che me lo porta il vento, finche vi sale da dentro l'anima..... io vi conosco svegliate e destate il mio sentire, che ad una ad una vi vorrei punire, finche vi sale da dentro l'anima... ma io vi conosco che rasentate il velo della melanconia, e umili e sconfitte non andate via, finche vi sale da dentro l'anima.... io vi conosco.....
REGOLE
REGOLE BASE PER LE KAJIRAE
1. Accogliere e riconoscere tutte le Persone Libere presenti.
2. Bisogna rivolgersi a tutti i Liberi con l'appellativo di Signore o Signora. Se il sesso della Persona Libera non puo' essere determinato dal nome, Signore e' l'appellativo da usare finche' il genere non sara' chiarito.
3. Servi ogni Signore o Signora come se servire bene fosse il motivo della vostra sopravvivenza .... E' cosi'.
4. Sebbene una Persona Libera non possa sempre avere ragione, essa non ha, per definizione, mai torto. Le schiave hanno sempre l'ultima battuta in qualsiasi discussione ... la battuta e' "Si, mio Signore" ...
5. Gelosia e possessività hanno ucciso più schiave che la disobbedienza.
6. Le schiave non possono usare la prima persona per riferirsi a se stesse. "IO" "ME" o "MIO" non esistono nel vocabolario di una schiava.
7. Il vostro collare reca onore al vostro Padrone. Il vostro atteggiamento può renderlo leggero come una piuma o pesante quanto una montagna.
8. Se non ci sono richieste di servigi, usate il tempo per pulire, cucinare, fare pratica delle tecniche di servizio con le vostre sorelline o imparate qualcosa su Gor. Non rimanete oziose.
9. Le schiave non posseggono nulla che non sia stato dato loro dal loro proprietario, incluso il nome. Quello che e' dato può essere tolto. Se vi e' stato affidato da portare un nome, gioielli o della seta, ricordate che queste cose possono essere riprese cosi facilmente quanto sono state date.
10. Il più piccolo capriccio del vostro padrone e' la vostra piu alta legge. E chi infrange la legge e' punito.
11. Il servizio a tutte le Persone Libere va fornito a semplice richiesta.
12. Parlate con le schiave che hanno un collare e servono bene. Esse le vostre insegnanti, le vostre sorelle maggiori. Possono risparmiarvi parecchio dolore. Chiedete a chi ha piu' esperienza ed esso vi sara' da guida.
13. Imparate le corrette tecniche di servizio prima di tentare di applicarle.
1. Accogliere e riconoscere tutte le Persone Libere presenti.
2. Bisogna rivolgersi a tutti i Liberi con l'appellativo di Signore o Signora. Se il sesso della Persona Libera non puo' essere determinato dal nome, Signore e' l'appellativo da usare finche' il genere non sara' chiarito.
3. Servi ogni Signore o Signora come se servire bene fosse il motivo della vostra sopravvivenza .... E' cosi'.
4. Sebbene una Persona Libera non possa sempre avere ragione, essa non ha, per definizione, mai torto. Le schiave hanno sempre l'ultima battuta in qualsiasi discussione ... la battuta e' "Si, mio Signore" ...
5. Gelosia e possessività hanno ucciso più schiave che la disobbedienza.
6. Le schiave non possono usare la prima persona per riferirsi a se stesse. "IO" "ME" o "MIO" non esistono nel vocabolario di una schiava.
7. Il vostro collare reca onore al vostro Padrone. Il vostro atteggiamento può renderlo leggero come una piuma o pesante quanto una montagna.
8. Se non ci sono richieste di servigi, usate il tempo per pulire, cucinare, fare pratica delle tecniche di servizio con le vostre sorelline o imparate qualcosa su Gor. Non rimanete oziose.
9. Le schiave non posseggono nulla che non sia stato dato loro dal loro proprietario, incluso il nome. Quello che e' dato può essere tolto. Se vi e' stato affidato da portare un nome, gioielli o della seta, ricordate che queste cose possono essere riprese cosi facilmente quanto sono state date.
10. Il più piccolo capriccio del vostro padrone e' la vostra piu alta legge. E chi infrange la legge e' punito.
11. Il servizio a tutte le Persone Libere va fornito a semplice richiesta.
12. Parlate con le schiave che hanno un collare e servono bene. Esse le vostre insegnanti, le vostre sorelle maggiori. Possono risparmiarvi parecchio dolore. Chiedete a chi ha piu' esperienza ed esso vi sara' da guida.
13. Imparate le corrette tecniche di servizio prima di tentare di applicarle.
mercoledì 1 dicembre 2010
lunedì 29 novembre 2010
giovedì 25 novembre 2010
Potere
..Diventando un sole calmo e profondo,il mio diletto sarebbe frustare le notti di questo mio mondo......umiliare la pioggia indi il terreno,e farlo asciugare con lampi di sereno......togliendo con un cenno sontuoso e beffardo,dal viso di ogni schiava l'anelito dell'orgasmo
lunedì 22 novembre 2010
venerdì 19 novembre 2010
giovedì 18 novembre 2010
mercoledì 10 novembre 2010
lunedì 8 novembre 2010
martedì 2 novembre 2010
domenica 31 ottobre 2010
La Schiavitu
La Schiavitù
Su Gor, la schiavitù è una istituzione complessa, con centinaia di sfaccettature e aspetti legali, sociali, economici ed estetici.
La schiavitù è un'antica istituzione, con una sua lunga storia. Perfino la mitologia goreana comprende una storia che ne giustifica la creazione.
Molto tempo fa, ci fu una guerra tra gli uomini e le donne di Gor. Le donne furono sconfitte. Tuttavia, i Preti-Re non vollero che tutte le donne fossero uccise e quindi le fecero bellissime. Come prezzo per la loro bellezza, i Preti-Re decretarono che esse sarebbero per sempre state sottomesse agli uomini.
Questo è vero in generale, su Gor. Pur conservando un certo grado di autonomia, anche le Donne Libere (Free Women) sono comunque sottomesse agli uomini. Gor è un mondo di uomini.
I goreani vedono la schiavitù come un'istituzione naturale, basata sulle differenze biologiche tra uomini e donne. La dominanza maschile è pervasiva nei mammiferi, e assoluta nei primati.
Gli uomini vedono il fatto di essere dominanti come un diritto. Molte donne sentono che ciò è vero e le schiave sono solitamente molto soddisfatte nel loro "bondage".
Sebbene esse possano inizialmente ribellarsi all'idea di essere schiave, imparano a rivelarsi ed a sentirsi realizzate nella loro sottomissione.
Il femminismo non esiste su Gor. I goreani accettano la schiavitù come parte naturale della vita e pochi mettono in discussione la sua validità fondamentale.
"La schiavitù femminile è l'espresssione istituzionalizzata, in una civiltà congeniale alla natura, della fondamentale relazione biologica tra i sessi. Nell'istituzione della schiavitù femminile troviamo questa relazione fondamentale riconosciuta, accettata, chiarita, corretta e celebrata." (Savages of Gor, p.193-4 USA)
La schiavitù è una parte importante del tessuto economico della società goreana. Dai lavoratori del metallo che producono acciaio per schiavi, ai profumieri che creano profumi per schiavi, quasi ogni casta trae beneficio dalla schiavitù.
Gli schiavi eseguono molti compiti su Gor, dai campi alle città. Senza l'istituzione della schiavitù, ci sarebbe un grosso buco nell'economia della società goreana.
Ci sono schiavi che aiutano i contadini nei campi, schiavi di stato che puliscono le strade e che lavorano nei lavatoi pubblici. La schiavitù è un'attività estesa a molti campi di applicazione.
Va quindi tenuto presente che la schiavitù non fu istituita solo per il piacere degli uomini. La schiavitù riguarda molto di più e molto altro che semplicemente sesso, sebbene all'80% degli schiavi siano richiesti servigi di natura sessuale.
Ad una prima e superficiale occhiata ai libri, si può essere indotti a pensare che la maggior parte delle donne goreane sia in schiavitù. In realtà solo una donna ogni 40 o 50 si trova in schiavitù, il che equivale ad una percentuale compresa tra il 2% ed il 3% (cfr. Beasts of Gor, p.246 USA)
Normalmente, quando si parla di schiavi, ci si riferisce a schiave femmine. Si tenga presente però che l'istituzione della schiavitù non esclude l'esistenza di schiavi maschi. Esistono infatti anche schiavi maschi, anche se in misura inferiore. Il rapporto numerico tra schiavi maschi e schiave femmine su Gor è di circa 1 a 10.
In base ai libri le schiave si dividono in due categorie, normalmente identificate dalle sete che indossano: le sete bianche e le sete rosse.
Le sete bianche sono indossate dalle ragazze vergini, mentre le sete rosse vengono usate dalle ragazze non più vergini. Questa è l'unica distinzione presente sui libri.
Online, su AW in particolare, il colore delle sete indossate può indicare il grado di istruzione di una ragazza, ed esistono normalmente tre livelli: seta bianca, seta gialla e seta rossa.
In ogni caso, la condizione di schiavitù non richiede alcun segno esplicito di sottomissione. Una schiava senza collare o senza marchio è sempre una schiava.
Vengono utilizzati degli oggetti come segno di proprietà e per indicare l'identità del proprietario (Master).
Online, esistono differenti modi per rappresentare l'identità del Master di una schiava. In IRc si pospongono al nome della schiava le lettere rappresentative del Master, racchiuse fra due parentesi graffe.
Cos'è una schiava?
"Tutta la tua vita," egli disse, "sarà ora pervasa dalla sessualità, dalla tua femminilità. La tua vita sarà ora una vita sessuale, una vita in cui la femminilità, per la prima volta, sarà di innegabile e capitale importanza. Sarà una vita in cui essa sarà intensamente centrale."
"Sì, Master," ella disse.
"Sarà una vita di totale femminilità, e dedizione, e servizio, e amore."
"Sì, Master," ella disse.
"Il più piccolo compito della tua vita, come pulirai il cuoio del tuo master, come preparerai i suoi abiti, come cucinerai e cucirai, come farai acquisti, come pulirai e laverai, perfino il compito più minuscolo e servile, tutte queste cose diventeranno sessuali, tutte diventeranno espressione della tua femminilità, appropriate e gioiose manifestazioni del tuo amore e del tuo servizio, senza valore, ma impotentemente ed offerti , solamente quelli di una schiava insignificante." "Capisco," ella disse.
"La vita di una schiava femmina," egli disse, "è una vita completamente dedicata all'amore. Non è il frutto di un compromesso. Non è una di quelle vite che sono un po' questo e un poì quello. È un modo di vivere totale, una vita completa. La schiava femmina ambisce a dare tutto, altruisticamente, sapendo che ella, poiché è una mera schiava, un animale senza diritti posseduto dal suo master, un animale che può essere comprato e venduto al suo minimo capriccio, non può pretendere niente, perché ella non merita niente, e non ha il dritto neanche alla minima attenzione e considerazione. Non sono possibili contrattazioni con lei, né patti."
"Sì, Master," sussurrò la ragazza.
"Ed è per simili donne," egli disse, "che gli uomini sono pronti a morire."
(Mercenaries of Gor, p.435-6 USA)
Su Gor, la schiavitù è una istituzione complessa, con centinaia di sfaccettature e aspetti legali, sociali, economici ed estetici.
La schiavitù è un'antica istituzione, con una sua lunga storia. Perfino la mitologia goreana comprende una storia che ne giustifica la creazione.
Molto tempo fa, ci fu una guerra tra gli uomini e le donne di Gor. Le donne furono sconfitte. Tuttavia, i Preti-Re non vollero che tutte le donne fossero uccise e quindi le fecero bellissime. Come prezzo per la loro bellezza, i Preti-Re decretarono che esse sarebbero per sempre state sottomesse agli uomini.
Questo è vero in generale, su Gor. Pur conservando un certo grado di autonomia, anche le Donne Libere (Free Women) sono comunque sottomesse agli uomini. Gor è un mondo di uomini.
I goreani vedono la schiavitù come un'istituzione naturale, basata sulle differenze biologiche tra uomini e donne. La dominanza maschile è pervasiva nei mammiferi, e assoluta nei primati.
Gli uomini vedono il fatto di essere dominanti come un diritto. Molte donne sentono che ciò è vero e le schiave sono solitamente molto soddisfatte nel loro "bondage".
Sebbene esse possano inizialmente ribellarsi all'idea di essere schiave, imparano a rivelarsi ed a sentirsi realizzate nella loro sottomissione.
Il femminismo non esiste su Gor. I goreani accettano la schiavitù come parte naturale della vita e pochi mettono in discussione la sua validità fondamentale.
"La schiavitù femminile è l'espresssione istituzionalizzata, in una civiltà congeniale alla natura, della fondamentale relazione biologica tra i sessi. Nell'istituzione della schiavitù femminile troviamo questa relazione fondamentale riconosciuta, accettata, chiarita, corretta e celebrata." (Savages of Gor, p.193-4 USA)
La schiavitù è una parte importante del tessuto economico della società goreana. Dai lavoratori del metallo che producono acciaio per schiavi, ai profumieri che creano profumi per schiavi, quasi ogni casta trae beneficio dalla schiavitù.
Gli schiavi eseguono molti compiti su Gor, dai campi alle città. Senza l'istituzione della schiavitù, ci sarebbe un grosso buco nell'economia della società goreana.
Ci sono schiavi che aiutano i contadini nei campi, schiavi di stato che puliscono le strade e che lavorano nei lavatoi pubblici. La schiavitù è un'attività estesa a molti campi di applicazione.
Va quindi tenuto presente che la schiavitù non fu istituita solo per il piacere degli uomini. La schiavitù riguarda molto di più e molto altro che semplicemente sesso, sebbene all'80% degli schiavi siano richiesti servigi di natura sessuale.
Ad una prima e superficiale occhiata ai libri, si può essere indotti a pensare che la maggior parte delle donne goreane sia in schiavitù. In realtà solo una donna ogni 40 o 50 si trova in schiavitù, il che equivale ad una percentuale compresa tra il 2% ed il 3% (cfr. Beasts of Gor, p.246 USA)
Normalmente, quando si parla di schiavi, ci si riferisce a schiave femmine. Si tenga presente però che l'istituzione della schiavitù non esclude l'esistenza di schiavi maschi. Esistono infatti anche schiavi maschi, anche se in misura inferiore. Il rapporto numerico tra schiavi maschi e schiave femmine su Gor è di circa 1 a 10.
In base ai libri le schiave si dividono in due categorie, normalmente identificate dalle sete che indossano: le sete bianche e le sete rosse.
Le sete bianche sono indossate dalle ragazze vergini, mentre le sete rosse vengono usate dalle ragazze non più vergini. Questa è l'unica distinzione presente sui libri.
Online, su AW in particolare, il colore delle sete indossate può indicare il grado di istruzione di una ragazza, ed esistono normalmente tre livelli: seta bianca, seta gialla e seta rossa.
In ogni caso, la condizione di schiavitù non richiede alcun segno esplicito di sottomissione. Una schiava senza collare o senza marchio è sempre una schiava.
Vengono utilizzati degli oggetti come segno di proprietà e per indicare l'identità del proprietario (Master).
Online, esistono differenti modi per rappresentare l'identità del Master di una schiava. In IRc si pospongono al nome della schiava le lettere rappresentative del Master, racchiuse fra due parentesi graffe.
Cos'è una schiava?
"Tutta la tua vita," egli disse, "sarà ora pervasa dalla sessualità, dalla tua femminilità. La tua vita sarà ora una vita sessuale, una vita in cui la femminilità, per la prima volta, sarà di innegabile e capitale importanza. Sarà una vita in cui essa sarà intensamente centrale."
"Sì, Master," ella disse.
"Sarà una vita di totale femminilità, e dedizione, e servizio, e amore."
"Sì, Master," ella disse.
"Il più piccolo compito della tua vita, come pulirai il cuoio del tuo master, come preparerai i suoi abiti, come cucinerai e cucirai, come farai acquisti, come pulirai e laverai, perfino il compito più minuscolo e servile, tutte queste cose diventeranno sessuali, tutte diventeranno espressione della tua femminilità, appropriate e gioiose manifestazioni del tuo amore e del tuo servizio, senza valore, ma impotentemente ed offerti , solamente quelli di una schiava insignificante." "Capisco," ella disse.
"La vita di una schiava femmina," egli disse, "è una vita completamente dedicata all'amore. Non è il frutto di un compromesso. Non è una di quelle vite che sono un po' questo e un poì quello. È un modo di vivere totale, una vita completa. La schiava femmina ambisce a dare tutto, altruisticamente, sapendo che ella, poiché è una mera schiava, un animale senza diritti posseduto dal suo master, un animale che può essere comprato e venduto al suo minimo capriccio, non può pretendere niente, perché ella non merita niente, e non ha il dritto neanche alla minima attenzione e considerazione. Non sono possibili contrattazioni con lei, né patti."
"Sì, Master," sussurrò la ragazza.
"Ed è per simili donne," egli disse, "che gli uomini sono pronti a morire."
(Mercenaries of Gor, p.435-6 USA)
Posture
Accoccolata
Scivola rapidamente accanto al Master sulla pelliccia, si raggomitola contro il Suo fianco, percepisce il Suo calore rannicchiandosi nella piega del Suo braccio.
Bacio della kajira
Camminando sulle ginocchia si avvicina al Master, il suo corpo inchinato, abbassa il capo sino a sfiorare il ruvido pavimento, la parte inferiore del suo corpo spinta verso l'alto, le morbide curve offerte, le sue bianche cosce divaricate per mettere in mostra la delicata parte del corpo ove risiede il centro del suo calore di schiava.
Bacio del Master
Il Master prende tra le mani i capelli della kajira, tira bruscamente la testa molto all'indietro mettendo il mostra il tenero collo e attira il volto di lei verso di Lui. Egli poi bacia profondamente, con forte energia le labbra.
Bara
I Supina, la testa voltata verso destra, la guancia ed il ventre premuti contro il pavimento freddo, le braccia poggiano sulla schiena, le caviglie,come i polsi, delicatamente intrecciate pronte per essere legate.
Braccialetto
Raddrizzando la schiena, con i capelli di lato, i polsi incrociati all'indietro, attende di essere legata.
Capelli
Di fronte al Master, il busto in avanti, si china. Le mani scivolano verso il basso e si appoggiano lungo le cosce. Lascia che i suoi morbidi capelli cadano davanti al viso, pronta ad essere usata in qualunque modo Lui desideri.
Cattura
Sdraiata, la schiena appoggiata al pavimento, gli occhi chiusi, le braccia lungo i fianchi, le ginocchia sollevate, le cosce divaricate, i piedi appoggiano sul pavimento ruvido che preme contro la morbida pelle, attende di essere presa.
Conduzione
Inginocchiata di fronte al Master, le mani umilmente appoggiate dietro la schiena, la testa piegata quasi a sfiorare il Suo fianco, lei si china a terra pronta ad essere condotta ovunque Lui desideri.
Coperta
Abbandonata silenziosamente sulla grande pelliccia , il corpo sprofondato completamente nel folto pelo, distesa, silenziosa e immobile, sino a che il Master o una persona libera decida di farla spostare.
Esposizione
Sta in piedi di fronte al Master, gli occhi bassi in segno di sottomissione, il mento leggermente inclinato verso di Lui. Lei pone le sue piccole mani sulla nuca in modo da consentire al suo seno di essere spinto verso l'alto ed essere esposto, divarica le gambe per rendere visibile il marchio.
Frusta
Scivola velocemente in ginocchio, i fianchi esposti verso l'alto, la fronte al pavimento, le braccia incrociate sul ventre, le mani aggrappate ai fianchi
Genuflessione della Torre
Scivola lentamente in ginocchio davanti al Master, le cosce modestamente chiuse, la schiena diritta, le spalle erette, i polsi incrociati e appoggiati in grembo, le palme rivolte all'insu'.
Inchino
Dalla posizione del nadu lentamente si piega all'indietro sino a che il capo sfiora il pavimento. Pone le mani ai lati del capo e si solleva verso l'alto inarcando la schiena.
Ko Lar
Cade in ginocchio ai piedi del Master e piega la schiena sino ad accucciarsi sui talloni, le braccia si tendono lentamente, i polsi incrociati, la testa abbassata tra le braccia in gesto di implorazione.
Labbra
Scivola in ginocchio davanti al Master, sta attenta ad allargare le cosce per quanto puo', la schiena inarcata all'indietro, le palme in su in segno di sottomissione, e increspa le sue rosse e piene labbra in attesa del Suo bacio, felice dell'onore che Lui le concede.
Lesha
Si inginocchia fieramente ai piedi del suo Master, la schiena orgogliosamente inarcata per mettere in mostra la Sua proprieta', le cosce divaricate per il Suo piacere. Lei solleva la testa ed inclina il mento, e incrocia i polsi dietro la schiena. La schiava attende la mano del suo Master, che regge il guinzaglio e che lo agganci al collare, preparandosi ad essere la sua schiava.
Nadu
Scivola in ginocchio, le ginocchia appoggiate al pavimento, le cosce completamente allargate invitano lo sguardo del Master, la schiena inarcata, i seni esposti, i capezzoli induriti ed eretti, solleva sensualmente il capo, abbassa gli occhi ai Suoi piedi in segno di rispetto, le mani appoggiate alle cosce, i palmi rivolti in alto in segno di sottomissione.
Obbedienza
Prostrata sul pavimento di fronte a Lui, la tenera pelle arrossata mentre si sposta lentamente, strisciando, sino a che finalmente raggiunge i Suoi piedi. Alza il capo soltanto quanto basta a sfiorare con le labbra ciascuno dei suoi piedi, la punta della sua lingua sfiora leggermente la Sua pelle. Il capo resta appoggiato al pavimento, le mani strette intorno alle Sue caviglie, ella alza un Suo piede e lo porta sino a sfiorare il collo per un lungo momento, prima di riportarlo dolcemente nella sua posizione, poi si prostra completamente a terra, davanti a Lui in attesa di un Suo ordine.
Piede
Si alza prontamente al richiamo del Master, accorre muovendosi velocemente avvicinandosi e ponendosi sul suo fianco sinistro, leggermente indietro, a capo chino, pronta a seguirlo ovunque Lui la voglia condurre.
Prostrata
Scivola con grazia nella posizione "nadu" di fronte al Master, le cosce completamente spalancate, lentamente abbassa la testa verso il pavimento, le sue braccia distese davanti a lei, le minuscole palme appoggiate a terra, i suoi capelli sparsi sul pavimento.
Quadrupede
A quattro gambe, come un animale, non puo' parlare ne' prendere nulla con le mani, deve essere soltanto un muto animaletto che esegue felice ogni ordine.
Riverenza
Scivola ginocchia ai piedi del Master, sta attenta ad aprire completamente le cosce davanti ai Suoi occhi, seduta sui talloni, la schiena inarcata, il seno bene esposto. Abbassa il capo per mostrare al Master la sua totale e completa sottomissione.
She Leen
Piega le ginocchia al comando del Master, appoggia i gomiti sul pavimento e abbassa il capo, pone le mani sul collo e incrocia saldamente le dita. Si abbassa sino a che il seno sfiora il pavimento, ruota la parte inferiore del corpo i modo seducente, stende le cosce allargandole completamente, in attesa del piacere che le vorra' dare il Master.
Sottomissione
Si inginocchia nella dolce posizione del nadu davanti al Master, e lentamente si china in avanti sino a che la sua guancia liscia sfiora le ruvide mattonelle del pavimento della Taverna. Si stende, solleva il Suo pesante piede e se lo pone sul collo, il Suo peso preme il suo collo ed il suo viso contro il pavimento. Porta le sue braccia all'indietro , incrocia i polsi posti sulla curva della schiena.
Sula
Si sdraia lentamente all'ordine del Master sino a porre sul morbido pelame le sue piccole mani, le palme rivolte all'insu', le dita leggermente richiuse come morbidi petali, lentamente apre le gambe, la morbida luce si riflette sulle sue bianche cosce, le ciglia abbassate sugli occhi, le ginocchia leggermente sollevate.
Sula Ki
Si pone lentamente sulla schiena, la testa rivolta opposta al Master, abbassa gli occhi esitanti, cercando di mascherare il desiderio, distende le braccia lungo i fianchi, le palme rivolte all'insu', le dita dolcemente rivolte verso l'interno, le gambe distese e i fianchi dolcemente sollevati, quasi ad invitare il Master ad usare il suo corpo, come e' stata educata a fare.
Strisciare
Si lascia cadere sulle ginocchia, appoggia gli avambracci a terra, striscia verso il Master, le mani sollevate, la fronte sfiora il pavimento, ferma le labbra vicino ai Suoi piedi.
Tavolino
Si pone sulle mani e sulle ginocchia, chiude i gomiti e separa le ginocchia, la schiena diritta, livellata al suo capo e al suo collo. Si prepara ad essere usata, geme dolcemente quando Lui posa la sua scodella sulla sua schiena, i Suoi piedi appoggiati vicino.
Uso
Scivola lentamente nella posizione, appoggiandosi sulle mani e sulle ginocchia, le cosce divaricate, gli occhi fissano ciecamente davanti, la testa diritta attende immobile gli ordini, i capelli le ricadono lentamente sulla schiena.
Ventre
Sdraiata sul ventre davanti al Master, entrambe sue minuscole mani appoggiano sul capo, quasi coperte dai capelli.
Scivola rapidamente accanto al Master sulla pelliccia, si raggomitola contro il Suo fianco, percepisce il Suo calore rannicchiandosi nella piega del Suo braccio.
Bacio della kajira
Camminando sulle ginocchia si avvicina al Master, il suo corpo inchinato, abbassa il capo sino a sfiorare il ruvido pavimento, la parte inferiore del suo corpo spinta verso l'alto, le morbide curve offerte, le sue bianche cosce divaricate per mettere in mostra la delicata parte del corpo ove risiede il centro del suo calore di schiava.
Bacio del Master
Il Master prende tra le mani i capelli della kajira, tira bruscamente la testa molto all'indietro mettendo il mostra il tenero collo e attira il volto di lei verso di Lui. Egli poi bacia profondamente, con forte energia le labbra.
Bara
I Supina, la testa voltata verso destra, la guancia ed il ventre premuti contro il pavimento freddo, le braccia poggiano sulla schiena, le caviglie,come i polsi, delicatamente intrecciate pronte per essere legate.
Braccialetto
Raddrizzando la schiena, con i capelli di lato, i polsi incrociati all'indietro, attende di essere legata.
Capelli
Di fronte al Master, il busto in avanti, si china. Le mani scivolano verso il basso e si appoggiano lungo le cosce. Lascia che i suoi morbidi capelli cadano davanti al viso, pronta ad essere usata in qualunque modo Lui desideri.
Cattura
Sdraiata, la schiena appoggiata al pavimento, gli occhi chiusi, le braccia lungo i fianchi, le ginocchia sollevate, le cosce divaricate, i piedi appoggiano sul pavimento ruvido che preme contro la morbida pelle, attende di essere presa.
Conduzione
Inginocchiata di fronte al Master, le mani umilmente appoggiate dietro la schiena, la testa piegata quasi a sfiorare il Suo fianco, lei si china a terra pronta ad essere condotta ovunque Lui desideri.
Coperta
Abbandonata silenziosamente sulla grande pelliccia , il corpo sprofondato completamente nel folto pelo, distesa, silenziosa e immobile, sino a che il Master o una persona libera decida di farla spostare.
Esposizione
Sta in piedi di fronte al Master, gli occhi bassi in segno di sottomissione, il mento leggermente inclinato verso di Lui. Lei pone le sue piccole mani sulla nuca in modo da consentire al suo seno di essere spinto verso l'alto ed essere esposto, divarica le gambe per rendere visibile il marchio.
Frusta
Scivola velocemente in ginocchio, i fianchi esposti verso l'alto, la fronte al pavimento, le braccia incrociate sul ventre, le mani aggrappate ai fianchi
Genuflessione della Torre
Scivola lentamente in ginocchio davanti al Master, le cosce modestamente chiuse, la schiena diritta, le spalle erette, i polsi incrociati e appoggiati in grembo, le palme rivolte all'insu'.
Inchino
Dalla posizione del nadu lentamente si piega all'indietro sino a che il capo sfiora il pavimento. Pone le mani ai lati del capo e si solleva verso l'alto inarcando la schiena.
Ko Lar
Cade in ginocchio ai piedi del Master e piega la schiena sino ad accucciarsi sui talloni, le braccia si tendono lentamente, i polsi incrociati, la testa abbassata tra le braccia in gesto di implorazione.
Labbra
Scivola in ginocchio davanti al Master, sta attenta ad allargare le cosce per quanto puo', la schiena inarcata all'indietro, le palme in su in segno di sottomissione, e increspa le sue rosse e piene labbra in attesa del Suo bacio, felice dell'onore che Lui le concede.
Lesha
Si inginocchia fieramente ai piedi del suo Master, la schiena orgogliosamente inarcata per mettere in mostra la Sua proprieta', le cosce divaricate per il Suo piacere. Lei solleva la testa ed inclina il mento, e incrocia i polsi dietro la schiena. La schiava attende la mano del suo Master, che regge il guinzaglio e che lo agganci al collare, preparandosi ad essere la sua schiava.
Nadu
Scivola in ginocchio, le ginocchia appoggiate al pavimento, le cosce completamente allargate invitano lo sguardo del Master, la schiena inarcata, i seni esposti, i capezzoli induriti ed eretti, solleva sensualmente il capo, abbassa gli occhi ai Suoi piedi in segno di rispetto, le mani appoggiate alle cosce, i palmi rivolti in alto in segno di sottomissione.
Obbedienza
Prostrata sul pavimento di fronte a Lui, la tenera pelle arrossata mentre si sposta lentamente, strisciando, sino a che finalmente raggiunge i Suoi piedi. Alza il capo soltanto quanto basta a sfiorare con le labbra ciascuno dei suoi piedi, la punta della sua lingua sfiora leggermente la Sua pelle. Il capo resta appoggiato al pavimento, le mani strette intorno alle Sue caviglie, ella alza un Suo piede e lo porta sino a sfiorare il collo per un lungo momento, prima di riportarlo dolcemente nella sua posizione, poi si prostra completamente a terra, davanti a Lui in attesa di un Suo ordine.
Piede
Si alza prontamente al richiamo del Master, accorre muovendosi velocemente avvicinandosi e ponendosi sul suo fianco sinistro, leggermente indietro, a capo chino, pronta a seguirlo ovunque Lui la voglia condurre.
Prostrata
Scivola con grazia nella posizione "nadu" di fronte al Master, le cosce completamente spalancate, lentamente abbassa la testa verso il pavimento, le sue braccia distese davanti a lei, le minuscole palme appoggiate a terra, i suoi capelli sparsi sul pavimento.
Quadrupede
A quattro gambe, come un animale, non puo' parlare ne' prendere nulla con le mani, deve essere soltanto un muto animaletto che esegue felice ogni ordine.
Riverenza
Scivola ginocchia ai piedi del Master, sta attenta ad aprire completamente le cosce davanti ai Suoi occhi, seduta sui talloni, la schiena inarcata, il seno bene esposto. Abbassa il capo per mostrare al Master la sua totale e completa sottomissione.
She Leen
Piega le ginocchia al comando del Master, appoggia i gomiti sul pavimento e abbassa il capo, pone le mani sul collo e incrocia saldamente le dita. Si abbassa sino a che il seno sfiora il pavimento, ruota la parte inferiore del corpo i modo seducente, stende le cosce allargandole completamente, in attesa del piacere che le vorra' dare il Master.
Sottomissione
Si inginocchia nella dolce posizione del nadu davanti al Master, e lentamente si china in avanti sino a che la sua guancia liscia sfiora le ruvide mattonelle del pavimento della Taverna. Si stende, solleva il Suo pesante piede e se lo pone sul collo, il Suo peso preme il suo collo ed il suo viso contro il pavimento. Porta le sue braccia all'indietro , incrocia i polsi posti sulla curva della schiena.
Sula
Si sdraia lentamente all'ordine del Master sino a porre sul morbido pelame le sue piccole mani, le palme rivolte all'insu', le dita leggermente richiuse come morbidi petali, lentamente apre le gambe, la morbida luce si riflette sulle sue bianche cosce, le ciglia abbassate sugli occhi, le ginocchia leggermente sollevate.
Sula Ki
Si pone lentamente sulla schiena, la testa rivolta opposta al Master, abbassa gli occhi esitanti, cercando di mascherare il desiderio, distende le braccia lungo i fianchi, le palme rivolte all'insu', le dita dolcemente rivolte verso l'interno, le gambe distese e i fianchi dolcemente sollevati, quasi ad invitare il Master ad usare il suo corpo, come e' stata educata a fare.
Strisciare
Si lascia cadere sulle ginocchia, appoggia gli avambracci a terra, striscia verso il Master, le mani sollevate, la fronte sfiora il pavimento, ferma le labbra vicino ai Suoi piedi.
Tavolino
Si pone sulle mani e sulle ginocchia, chiude i gomiti e separa le ginocchia, la schiena diritta, livellata al suo capo e al suo collo. Si prepara ad essere usata, geme dolcemente quando Lui posa la sua scodella sulla sua schiena, i Suoi piedi appoggiati vicino.
Uso
Scivola lentamente nella posizione, appoggiandosi sulle mani e sulle ginocchia, le cosce divaricate, gli occhi fissano ciecamente davanti, la testa diritta attende immobile gli ordini, i capelli le ricadono lentamente sulla schiena.
Ventre
Sdraiata sul ventre davanti al Master, entrambe sue minuscole mani appoggiano sul capo, quasi coperte dai capelli.
Gor Capitolo secondo
Capitolo Secondo
LA CITTÀ DELLE TORRI
L'ultima cosa che ricordo di quella notte sulle montagne del New Hampshire fu d'aver mosso un passo oltre la soglia dell'astronave discoidale, ed a questo punto la mia memoria s'interrompe bruscamente. Poi m'accorsi d'essere disteso e compresi che mi stavo risvegliando da un lungo sonno ristoratore; ma, nell'aprire gli occhi, m'aspettavo di vedere le familiari pareti della mia stanza all'ostello delcollege. Scorsi invece qualcosa di completamente diverso.
Giacevo su un lettino duro come un tavolaccio, al centro d'un locale circolare il cui soffitto era alto appena poco più di due metri. Sulla parete rotonda s'aprivano cinque finestrelle così strette che non avrebbero lasciato passare un bambino, e che dalla forma avrei detto fossero le feritoie d'un castello medievale. Daesse entrava una luce diurna molto viva e, tirandomi su a sedere con un grugnito, osservai il resto dell'arredamento.
Non c'era molto da vedere. Alla mia destra era appeso un arazzo di lana spessa su cui era ricamata una scena di caccia, che osservai sbattendo le palpebre. I cacciatori erano armati di lunghe picche, montavano in sella a grossi uccelli simili a rapaci e stavano dando addosso a una sorta d'enorme cinghiale fornito di zanne affilate come scimitarre. A parte il soggetto di stampo fantasioso, lo stile era d'un genere pre-rinascimentale, bucolico ed ingenuo ma non spiacevole.
Dalla parte opposta faceva bella mostra di sé uno scudo tondeggiante con sopra applicate due lance incrociate. Dal tipo avrebbe potuto esser scambiato per una classica egida greca, ed intorno all'umbone giostravano figure stilizzate che non avrebbero sfigurato su un antico vaso ellenico. Il disegno centrale mi risultò incomprensibile, e non seppi decidere se fosse un anagramma o una fantasia d'artista. Sullo scudo era appeso anche un elmo, o forse farei meglio a definirlo un cimiero, visto che lo stesso Achille non avrebbe esitato a metterselo in testa.
Quell'insieme di oggetti ispirava una bellicosa fierezza, ma dava anche l'impressione di non esser lì solo per ornamento, un po' come le armi che i Minuteman tenevano appese al muro per esser pronti ad usarle nel tradizionale spazio d'un minuto. Notai che sembravano tenute lustre e pulite dal continuo contatto di mani adatte ad impugnarle, e m'incuriosì la forma dell'elmo, fornito di una fenditura ad «Y» per gli occhi, mentre naso e bocca erano scolpiti nel metallo del coprifaccia.
A parte questi oggetti, un paio di blocchi di pietra che avrebbero potuto essere seggiole e un tappetino, il locale non conteneva altro. Muri e soffitto mi parvero in solido marmo bianco di buona qualità. Ma non c'era nulla che avesse l'aspetto d'una porta d'ingresso. Scesi dal piano su cui giacevo, constatando che si trattava d'un pesante tavolo anch'esso di marmo, e mi accostai ad una feritoia. Il cielo che vidi all'esterno era d'un azzurro assolutamente identico a quello della Terra, ed in esso brillava un sole che soltanto le dimensioni leggermente superiori distinguevano da quello a cui ero abituato. Era comunque una stella gialla della stessa classe spettrale. La mia prima impressione fu che mi trovavo ancora sulla vecchia e cara Terra, e che l'apparente maggior grandezza del sole era un'illusione ottica.
Trassi un profondo respiro e i miei polmoni si riempirono di buon ossigeno, cosa che mi confortò nella sicurezza di non esser stato trasportato su chissà quale pianeta lontano. L'atmosfera era quella giusta, riflettei fra me. Nello stesso tempo, però, ciò che i miei occhi vedevano mi stava facendo di nuovo cambiare idea, perché fuori da quella feritoia si stendeva un centro abitato d'aspetto assai poco terrestre. C'era un gran numero di torri cilindriche alte e dalla cima piatta, variamente colorate, traforate da strette finestrelle e collegate fra loro da una quantità di ponti ad arco leggeri e di bell'effetto. All'apparenza l'edificio in cui m'ero risvegliato aveva una struttura in tutto simile.
Il mio campo visivo non mi consentiva di scorgere il suolo, ma in distanza vidi colline ricoperte di vegetazione verde che avrebbe potuto essere erba o macchia molto fitta. Meravigliato, e chiedendomi se non fossi finito in una situazione pericolosa o sgradevole, tornai presso il tavolo.
Passai una mano sulla superficie di freddo marmo, ma intanto mi stavo accorgendo che in quel luogo c'era un'altra cosa diversa e inaspettata: il mio peso corporeo non era più lo stesso. Saltai al di là del tavolo e l'altezza del mio balzo fu superiore a quella che le mie gambe mi avrebbero normalmente dato. Feci qualche rapido passo, tentai ancora un saltello, e il mio stupore si trasformò in certezza: la gravità che mi attraeva al suolo era alquanto minore di quella terrestre.
Dunque m'avevano trasferito su un mondo meno denso o più piccolo del mio, il quale doveva ruotare attorno al sole ad una distanza che valutai sui 120 milioni di Km. Scartai subito l'ipotesi che fosse Venere: ciò che mi circondava non era certo un inferno d'anidride carbonica surriscaldata. Tuttavia ne sapevo abbastanza di astronomia per decidere che quella stella era quasi certamente il Sole.
Un'altra cosa mi avevano fatto: ero stato spogliato di tutti i miei vestiti ed ora indossavo una tunichetta rossa stretta alla vita da una cintura di cuoio giallo. Qualcuno doveva essersi preso la briga di farmi un bagno, perché la fanghiglia di cui m'ero impiastricciato sulle White Mountains era sparita. L'anello sul cui castone era incisa la «C» non mi era stato tolto, anzi me l'avevano infilato all'anulare della mano destra.
Più che mai sconcertato e anche un po' impaurito, sedetti sul tavolo e cercai di rimettere ordine nei pensieri per trarne qualche solida deduzione. Non venni a capo di niente. Mi sentivo come può sentirsi un bambino in fasce trasportato nel mezzo di un Luna Park, assalito da un universo d'immagini e di sensazioni a cui è difficile dare un significato.
Un rumore alle mie spalle mi fece trasalire, e vidi che nella parete s'era aperta una porta nascosta. Sulla soglia c'era un individuo di mezza età, robusto e rosso di capelli, che venne subito dentro. Non avevo saputo cosa aspettarmi, e fui sollevato nel vedere che su quel pianeta abitava gente del tutto umana. Anche lui indossava una tunichetta della stessa foggia, con cintura e sandali di cuoio. Sorrise amichevolmente e mi appoggiò le mani sulle spalle, non meno che se fossi stato un suo vecchio e affezionato conoscente.
«Tarl, figlio mio!», esclamò.
«Ma cosa...» riuscii appena a balbettare, stupefatto.
«Sono tuo padre, ragazzo.»
L'uomo rise, afferrandomi una mano e stringendola fra le sue, divertito dalla meraviglia che dovevo aver dipinta sulla faccia. Mi chiese se m'ero svegliato bene ed io risposi di sì. La sua faccia mi era nuova e sconosciuta, ma io ero uno straniero su un mondo che non era la Terra e faticavo a convincermi della realtà della situazione, eppure quello era mio padre.
«Come sta la mamma, figliolo?»
«Morta e sepolta. Un bel po' di tempo fa,» borbottai.
«Ah!» Corrugò le sopracciglia, scosse il capo e disse: «Mi dispiace molto. Le volevo bene davvero. Fra tutti voi mi era la più cara.»
Attraversò la stanza e si mise a guardare fuori da una finestrella, con atteggiamento fra addolorato e pensoso, ma io mi chiedevo quanto poteva esserci d'autentico in quella sofferenza. Non avevo nessuna intenzione di provare affetto e simpatia per lui. Aveva lasciato mia madre a lottare con la miseria in un sobborgo di Bristol, e per me non aveva fatto altro se non appiopparmi un nome insolito. Adesso cos'aveva da mettersi a ruminare ricordi lacrimevoli? Che motivo aveva di compiangere una donna per cui proprio lui era stato fonte di infelicità? Inoltre non mi era piaciuta troppo quella sua frase «Fra tutti voi mi era la più cara». Cosa intendeva dire? non avevo nessuna voglia di saperlo.
Ma intanto che dicevo questo a me stesso, sentivo anche il desiderio d'avvicinarmi a lui e di mettergli una mano su una spalla, di toccarlo e di fargli capire che infine non ce l'avevo con lui, perché fra me e quell'uomo c'era un legame di sangue che era un legame di vita, e d'un tratto m'avvidi di avere gli occhi umidi. Qualcosa di oscuro si muoveva in me, riaffioravano memorie che non sapevo di avere: il ricordo d'un volto di donna dolce e gentile e di due braccia che mi stringevano con amore. E accanto a quello di lei un altro viso, mascolino e sorridente. Mi morsi le labbra.
«Padre,» sussurrai.
Lui si raddrizzò e si voltò, fissandomi senza aprir bocca. Aveva un'espressione indecifrabile, e non potei capire se era quella di un uomo che ha appena ingoiato qualche lacrima, ma certo c'era una sorta di angoscia sul suo volto severo. Guardandolo dritto negli occhi, compresi che di lui non sapevo proprio niente, e che forse m'ero sbagliato nel giudicarlo, perché il modo in cui mi osservava esprimeva un affetto silenzioso su cui non potevo ingannarmi.
«Ragazzo mio... Tarl,» disse sottovoce.
Un momento dopo lo stavo abbracciando forte, piangendo, ed anch'egli mi teneva stretto a sé senza nascondere le lacrime. Più tardi avrei appreso che quello sfoggio d'emozioni non era considerato affatto sintomo di sdolcinatezza nel mondo in cui ero stato portato. Anzi, al contrario di quanto accade con l'ipocrito moralismo terrestre, esprimere con pienezza le proprie emozioni veniva giudicata cosa degna di rispetto e di stima.
Quando mi lasciò, si asciugò gli occhi con un gesto calmo, studiandomi con un sorriso simile ad una smorfia triste. «Non la dimenticherò, credimi. Non fu per mia volontà che lasciai tua madre.»
Rimasi zitto. Come se avesse intuito il mio groviglio di emozioni, lui tornò serio. La sua voce cercò di suonare brusca:
«Ho apprezzato molto il tuo regalo, Tarl Cabot,» dichiarò.
Visto poi che non capivo, disse ancora: «Voglio dire la terra. Una manciata del mio suolo natale.»
Scossi appena il capo. Volevo che continuasse a parlare, che rispondesse alle cento domande che mi frullavano nella mente, che mi spiegasse quali misteri c'erano dietro la sua e la mia presenza lì, dietro l'esistenza stessa di quel pianeta tanto simile alla Terra, e soprattutto per quale motivo ero stato prelevato dal mio pianeta e dalla mia vita.
«Devi essere piuttosto affamato, vero?», disse invece lui.
«Affamato di notizie, padre. Cosa sto facendo qui? E dove...»
«Naturalmente, certo,» m'interruppe. Poi sorrise. «Ma intanto ti conviene mangiare un boccone. Mentre ti riempi lo stomaco parleremo di tutto questo. Va bene?»
Batté le mani due volte e la porta, che s'era chiusa, si riaprì nuovamente. Spalancai gli occhi. Nella cornice d'ingresso era comparsa una ragazza bionda e decisamente bella, una giovane fata dagli occhi blu sulla quale fui costretto ad inchiodare uno sguardo d'ammirazione. Indossava una tunichetta alla schiava quasi indecente sotto cui s'indovinava un corpo delizioso, ed il suo unico ornamento, sempre che si trattasse di un ornamento, era un collare metallico che le circondava il collo aggraziato. Depose sul tavolo un vassoio colmo di cibi assortiti ed uscì svelta com'era entrata.
Mio padre non l'aveva degnata di uno sguardo, ma aveva notato la luce che s'era accesa nelle mie pupille.
«Se la vuoi, stanotte potrai averla,» disse.
Non fui sicuro d'aver capito bene cosa volesse dire, e tacqui. Lui mi indicò uno dei sedili di pietra accostati al tavolo e insisté perché cominciassi subito a mangiare. Era cibo semplice, che dapprima esitai ad assaggiare perché avrei voluto piuttosto parlare e chiedere spiegazioni, ma l'appetito l'ebbe vinta e mi portai alla bocca un cosciotto succulento, la carne sembrava avere il caratteristico sapore della cacciagione, ed era stata rosolata sulla fiamma viva. La frutta, che consisteva in grappoli d'uva e pesche non troppo dissimili da quelle terrestri, era succosa e fresca come appena colta. Mi versai un boccale di vino e lo trovai frizzante, molto alcolico e migliore per ubriacarsi in allegria che per accompagnare un pasto. Più tardi mi avrebbero insegnato che si chiamavaKa-la-na, una qualità locale. Ma, nel frattempo, mio padre aveva finalmente deciso di cominciare a parlare.
«Il nome di questo pianeta è Gor,» disse. «E la stessa stella a cui ruota intorno è il nostro vecchio Sole. Come distanza, ci troviamo più o meno a metà fra l'orbita di Venere e quella della Terra. Il nome Gor ha un preciso significato. Qui abbiamo parecchie lingue diverse, ma in ognuna esso significaPietra della Casa, o anchePietra del Focolare.»
«Gor,» ripetei io, annuendo.
«Nei paesetti di campagna sparsi dappertutto,» spiegò lui, «ogni casupola viene edificata attorno ad un centro costituito da una pietra piatta, sulla quale è inciso il nome di famiglia o lo stemma del fondatore della comunità, e perciò essa viene chiamata laPietra della Casa. Si tratta di un simbolo di sovranità territoriale, e in effetti ogni membro della comunità domina su un territorio sovrano che gli appartiene di diritto.»
«Capisco,» dissi, addentando una pesca.
«Col passare del tempo, moltePietre della Casa finirono con l'essere il centro di vere e proprie città. Nei villaggi esse si trovano in quella che è tradizionalmente la piazza del mercato, mentre nelle grandi città l'uso vuole che siano tenute sulla cima della torre più alta. Dunque tu comprendi che per la gente laPietra della Casa è gravida di significati mistici e simbolici, un po' come le bandiere nazionali sulla Terra.»
Dicendo questo si era alzato ed aveva preso a camminare avanti e indietro per il locale, con lo sguardo acceso da una vivacità che lì per lì non sapevo spiegarmi. In seguito appresi che quando un abitante di Gor parla di questo argomento, ed in particolare della suaPietra della Casa, lo fa sempre stando in piedi e in tono un po' enfatico. Questo, come altre forme d'orgoglio campanilistico, è un costume che ha le sue origini nel lontano passato d'un pianeta i cui codici d'onore di stampo spesso barbarico sono rigidamente rispettati.
«Queste pietre, ragazzo mio, sono quasi tutte diverse come forma, colore e altezza, e molte di esse sono scolpite in modo assai complesso. Alcune delle maggiori città hannoPietre della Casa piccole e all'apparenza insignificanti, ma d'incredibile antichità. Le più rispettate risalgono all'epoca lontana e dimenticata in cui l'abitato era ancora un borgo primitivo, e alcune di esse appartenevano addirittura a condottieri nomadi che le poggiano là dove stabilivano il loro accampamento. Le tradizioni di questo genere sono importantissime.»
Mio padre fece una pausa e si volse a guardare all'esterno. Per un paio di minuti restò davanti alla finestra, volgendomi le spalle, poi si schiarì la gola e riprese il discorso là dove l'aveva lasciato:
«Nel luogo in cui un uomo depone la suaPietra della Casa c'è il suo focolare e, legalmente, quel terreno diventa sua proprietà privata. Come immaginerai, ciò può dare origine a dispute. La terra può essere buona o può non esserlo ma, quando è ben fertile, capita che la si debba difendere con la spada dalla cupidigia di eventuali vicini forti e minacciosi.»
«Con la spada?», domandai, stupito.
«Ma sicuro!», esclamò lui, sorridendo come se avesse detto la cosa più naturale del mondo. «Ah, vedo che hai proprio bisogno di imparare anche le cose più elementari della vita su Gor, ragazzo. Qui esiste quella che potremo chiamare una grande quantità di dinastie, ognuna imperniata sulla propriaPietra della Casa. Le questioni di proprietà e di confine, inconciliabili in altri modi, vengono regolate con la spada. Chi vuole guadagnarsi un pezzo di terra fertile, dev'essere disposto a battersi, prima per conquistarselo e poi per difenderlo.»
«Un giorno o l'altro,» riprese dopo una pausa, «ti mostrerò la mia piccolaPietra della Casa, che tengo in camera mia. Contiene una manciata del buon suolo della Terra, che portai con me quando venni per la prima volta su questo pianeta.» Mi fissò acutamente, e poi dichiarò con estrema calma: «Aggiungerò ad essa quella che mi hai portato tu, e un giorno questa terra ti apparterrà... sempre ché tu viva abbastanza da guadagnarti la tuaPietra della Casa, beninteso.»
Io mi forbii la bocca col dorso di una mano e mi alzai. Lo sguardo di mio padre si era fatto offuscato e distante.
«Il sogno ricorrente di ogni conquistatore o uomo di stato è quello di possedere laSuprema Pietra della Casa, la pietra che gli dà la potestà sull'intero pianeta di Gor,» disse senza guardarmi. «Si racconta che laSuprema Pietra della Casa sia non dissimile da tante altre, ma nessuno che io conosca l'ha mai vista. Si trova nell'Inviolabile,un luogo tanto sacro quanto irraggiungibile, ed è il simbolo su cui si fonda il potere dei Re-Sacerdoti, che risiedono là.»
«Chi diavolo sono i Re-Sacerdoti?», chiesi.
Mi fissò improvvisamente corrucciato, quasi che gli sembrasse d'aver già detto più di quanto non desiderasse. Per qualche minuto né lui né io parlammo.
«Non hai torto,» borbottò infine, ritrovando il sorriso. «Credo che dovrò parlarti anche dei Re-Sacerdoti. Ma adesso torniamo agli argomenti più immediati, altrimenti non potrai capire ciò che dico. Sediamoci.»
Quando ci fummo sistemati sui sedili di pietra, ciascuno a un lato del massiccio tavolo, riprese ad illustrarmi la realtà di quel mondo con parole metodiche e ponderate.
Mio padre si riferiva al pianeta Gor chiamandolo anche la Contro-Terra, prendendo quest'espressione dagli scritti di certi matematici post-pitagorici che avevano per primi speculato sull'esistenza di un tale mondo. Abbastanza significativo trovava il fatto che una delle parole di Gor per indicare il Sole fosse Lar Torvis, ovverosia il Fuoco Centrale, termine che quei matematici usavano per definire la posizione del Sole rispetto a tutti gli altri corpi celesti. L'espressione popolaresca era invece Tar-tu-Gor, che significa laLuce sopra la Pietra della Casa. Fra la gente comune esisteva una setta di adoratori del Sole, il numero dei quali era però insignificante se paragonato a quello di coloro che veneravano invece i Re-Sacerdoti. Tali personaggi venivano temuti e adorati come degli Dèi, e perfino dalla bocca dei più forti guerrieri si potevano udire, in situazioni di pericolo, preghiere e invocazioni rivolte ad essi.
«I Re-Sacerdoti,» mi rivelò mio padre, «sono eterni e immortali. O quantomeno questa è la credenza più diffusa.»
«Ed anche tu lo credi?»
«Non lo so.» Alzò le spalle. «Forse è davvero così.»
«Ma cosa sono, in realtà?»
«Degli Dèi, probabilmente.»
«Vuoi prendermi in giro?»
«No di certo. Ti sto riferendo ciò che pensa la gente. Del resto non è forse vero che al di là della vita e della morte c'è qualcuno o qualcosa di trascendentale?»
Visto che restavo in silenzio, riprese: «Per quel che valgono le mie supposizioni, potrei credere che i Re-Sacerdoti siano umani in tutto, o addirittura più che umani. Oppure potrebbero essere creature umanoidi. Comunque sono esseri in possesso di una scienza e di una tecnologia in confronto alla quale quella terrestre è poco più che alchimia medievale.»
Quest'ultima dichiarazione mi parve almeno fondata, visti i fatti che mi avevano appena avuto come protagonista e vittima insieme. Sulle White Mountains mi ero trovato in presenza di forze all'apparenza incomprensibili, che tuttavia potevano essere spiegate con l'esistenza di una capacità scientifica superiore a quella umana. Sia il terrore che m'aveva offuscato la mente, sia il potere da cui ero stato di nuovo trascinato al campo, sia i disturbi della bussola, dovevano essere stati originati da strumenti assai evoluti. La nave discoidale era chiaramente il prodotto d'una scienza avanzatissima. Tutto ciò che m'era accaduto trovava la sua origine negli strumenti tecnici di cui erano forniti i dominatori di Gor. Ma, più che spiegarmi i fatti, questo creava in me altre domande. Ero teso nello sforzo di convincermi che tutto quanto non era frutto d'un sogno.
«I Re-Sacerdoti hanno stabilito questa loro sede,l'Inviolabile, nel mezzo delle montagne di Sardar, una vastissima zona montagnosa e accidentata nella quale chi ci tiene alla vita non si azzarda a penetrare. È una terra considerata tabù, e piena di pericoli sconosciuti. Se pure qualcuno è riuscito ad addentrarvicisi, non è mai tornato indietro a raccontarlo. «Qui lo sguardo di mio padre si fece ancora lontano e cupo, come se vi fossero cose che preferiva dimenticare. Dopo un breve silenzio riprese: «Si ha notizia di gruppi di idealisti o di ribelli che in varie epoche hanno intrapreso l'ascesa di quelle gelide e dirupate montagne, lasciandoci la vita fin dall'inizio. Non ci sono piste né sentieri e, osservata dall'esterno, la zona appare piena di barriere insuperabili. Membra e frammenti corporei di fuorilegge e di fuggiaschi che avevano cercato rifugio sulle Montagne di Sardar sono stati ritrovati in pianura, spesso assai lontano, come rosicchiati e spezzati da denti o becchi di qualche animale.»
Mi versai ancora un boccale di vino, senza saper cosa pensare. Solo allora mi accorsi che l'avevo quasi finito, bevendo distrattamente mentre ascoltavo. Mi sentivo già un tantino alticcio, e feci alcuni lunghi respiri per schiarirmi le idee.
«Qualche volta,» disse lui a bassa voce, «capita che un disperato o un vecchio non ancora stanco della vita tenti l'impresa nella speranza di scoprire laggiù il segreto dell'immortalità. Ma se mai uno di loro l'ha davvero trovato, certo non è poi tornato a vantarsene né si è mai più rivisto nella Città delle Torri. Qualcuno ha azzardato l'ipotesi che i più fortunati di costoro, una volta raggiuntol'Inviolabile, divengano essi stessi Re-Sacerdoti. Ma chi può saperlo? La mia opinione, così come l'opinione del popolo è che, cercare di svelare i segreti dei Re-Sacerdoti, significhi sempre morire e per di più in un modo atroce.»
«Ma è solo una tua idea. Non è così?»
«Infatti. Ognuno è libero di costruirsi le congetture che vuole,» ammise lui, alzando le spalle.
Dai fatti e dalle leggende che poi mi raccontò brevemente, conclusi che i motivi per considerare divini i Re-Sacerdoti non mancano. Il loro potere era enorme, e consentiva loro di distruggere o di tener sotto controllo chiunque e dovunque. Si diceva che fossero al corrente di ogni fatto che accadeva sul pianeta, ma che nello stesso tempo non si degnassero di far troppo caso alle vicende umane.
Mio padre si disse certo che fra le loro montagne si dedicavano a coltivare una sorta di felicità o di beatitudine artificiale, e che tutto il resto appariva loro privo di vera importanza. Erano, così affermò, divinità solide e reali ma remote, lontane dalle passioni e dalle sventure che assillavano l'esistenza quotidiana dei mortali. Per la verità queste mi facevano l'effetto di fantasie popolaresche, perché la loro ricerca della beatitudine stonava molto col destino che riservavano a chi osava avvicinare la loro roccaforte. Trovavo difficile considerarli per metà santoni e per metà spietati uccisori di uomini.
«Questo loro disinteresse non è assoluto, perché c'è un campo in cui interferiscono sempre nelle faccende umane. Si tratta della tecnologia. I Re-Sacerdoti ne impediscono lo sviluppo, concedendone un uso limitato agli Uomini delle Montagne. Può sembrarti inspiegabile, eppure su Gor esistono due civiltà tecnologiche diversissime e separate: da una parte quella immensamente evoluta dei Re-Sacerdoti, e dall'altra quella umana le cui più terribili armi da guerra sono l'arco e la lancia. Noi, comuni esseri umani, non possediamo neppure mezzi di trasporto e di comunicazione: niente civiltà meccanica e niente elettricità.»
«Per contro,» proseguì con un sospiro, «potrai renderti conto che, in alcune cose, noi mortali e gli Uomini delle Montagne siamo abbastanza progrediti, ad esempio in agricoltura, in medicina ed in altre scienze di minor conto. Suppongo che ora ti domanderai perché mai qualcuno non cerca di porre rimedio a questo stato di cose, magari cercando di introdurre armi da fuoco o veicoli a motore. Non sono gli uomini capaci e intelligenti che mancano, qui su Gor.»
«E allora quali difficoltà ci sono?»
«Molto semplice, ragazzo mio. Non solo il progresso tecnologico è proibito, ma esso viene drasticamente impedito con l'uso spietato della forza. Chi ha provato a costruire macchine appena un po' sofisticate se le è viste distruggere... bruciare, andare in fiamme d'un colpo. E ci ha rimesso la vita.»
«Bruciare? Intendi dire come la busta di metallo azzurro?»
«Proprio così. È quella che viene chiamata laMorte di Fuoco. I tentativi di creare armi o macchinari ci sono stati, ed i loro autori sono stati spesso capaci d'evitare per un poco quel destino, talvolta per più di un anno. Ma, prima o poi, laMorte di Fuoco è sempre piombata su di loro, infallibile e tremenda. Io stesso l'ho visto accadere, una volta,» terminò, accigliato.
Era chiaro che non gli avrebbe fatto piacere darmi maggiori ragguagli, così cambiai discorso: «Cosa puoi dirmi dell'astronave che mi ha portato qui? È anch'essa un prodotto della tecnologia dei Re-Sacerdoti?»
«Ne dubitavi?» Mi sorrise. «Tuttavia non credo che a pilotarla fosse un Uomo delle Montagne.»
«Un Re-Sacerdote, allora?»
«No, neppure. Senza poterne esser certo, direi che era controllata a distanza, dalle Montagne di Sardar. Si dice che la cosa avvenga a questo modo, nelViaggio dell'Acquisto.»
«Dell'Acquisto?»Inarcai un sopracciglio. «Dunque sono stato acquistato?»
«Se ti piace dir così. La stessa cosa capitò a me molto tempo fa. Ed anche ad altri.»
«Ma tutto questo che scopo ha? Perché un individuo della Terra deve vedersi trasportato qui su Gor?»
«Gli scopi sono sempre diversi. Ciascun individuo per uno scopo,» tagliò corto lui.
Passò a darmi altre informazioni sul pianeta che mi trovavo sotto i piedi. Come raccontavano gli Adepti, ovvero coloro che fungevano da intermediari fra i Re-Sacerdoti ed i mortali, Gor in origine aveva fatto parte del sistema solare di un'altra stella, in uno di quei lontanissimi ammassi stellari che egli chiamò le Galassie Blu. I Re-Sacerdoti lo avevano tolto dalla sua orbita e portato a navigare nel cosmo alla ricerca di un'altra stella, e questa fantastica migrazione era già avvenuta più d'una volta.
La storia mi sembrava incredibile. Nell'universo le distanze intergalattiche sono inimmaginabili, ed anche alla velocità della luce richiederebbero periodi di tempo incommensurabilmente lunghi. Durante un tragitto del genere, nessun pianeta avrebbe potuto conservare una parvenza di vita sulla sua superficie, e se ciò era accaduto davvero, allora Gor era stato per miliardi e miliardi di anni una palla di ghiaccio morta fin nel più profondo delle sue viscere, senza neppure un'atmosfera.
Anche accettando per vera la cosa, si poteva fare un buon taglio a quelle fantasie e supporre che Gor fosse stato spostato nel nostro sistema solare da una delle stelle più vicine, come ad esempio Alpha Centauri. La distanza era sempre notevolissima ma, con uno sforzo d'immaginazione, fin lì ci arrivavo. In via teorica potevo anche ammettere che una scienza superumana potesse farlo e tutelare al contempo l'ambiente ecologico del pianeta, però non riuscivo a pensare a quali immensi mezzi fossero occorsi. Insomma, mi si stava dicendo che Gor era stato per lunghi periodi della sua storia una sorta di nave interstellare, ed io ero lì a lambiccarmi il cervello per cercare il modo di crederci.
C'era un'altra ipotesi che infine espressi a mio padre: quella che Gor fosse sempre stato all'interno del nostro sistema solare, ignorato e mai scoperto per qualche misteriosa ragione. Non ci credevo neppure io, e l'idea avrebbe fatto sghignazzare un astronomo terrestre, ma con mia sorpresa lui parve considerarla plausibile.
«Questa,» disse vivacemente, «è la cosiddetta Teoria dello Scudo Solare. Ed è il motivo per cui alcuni chiamano Gor laContro-Terra. Si basa sul fatto, praticamente accertato, che il pianeta ruota intorno al Sole con un'orbita e una velocità tale da restare sempre in congiunzione con la Terra, ovverosia col Sole in mezzo a far da scudo.»
«Scientificamente non è possibile crederci. Qualsiasi idiota di astronomo dilettante scoprirebbe subito la sua esistenza, deducendola dalle interferenze gravitazionali con le orbite degli altri pianeti,» affermai con sicurezza. «Plutone è stato scoperto proprio a questo modo, pur piccolo e lontanissimo com'è.»
«Tu sottovaluti la scienza dei Re-Sacerdoti, ragazzo mio,» sogghignò lui. «Esseri che sono stati capaci di spostare Gor su distanze intergalattiche, possono ingannare eventuali osservatori con l'uso delle tecniche appropriate.
«L'equilibrio gravitazionale all'interno del sistema solare deve risultare alterato per forza dalla presenza di Gor, e non vedo come se ne potrebbero mascherare gli effetti.
«I campi di gravità possono essere controllati. È mia opinione che i Re-Sacerdoti riescano a farlo senza difficoltà, annullando le ripercussioni che quello di Gor avrebbe sugli altri pianeti. E, se vuoi sottilizzare, non mancherebbero altri generi d'indizi che potrebbero rivelare la sua presenza. Ad esempio le onde radio. Ma credo che essi riescano in qualche modo a deformare la struttura dello spazio intorno a Gor. Del resto l'evidenza parla da sé: nessun astronomo terrestre ha mai sospettato che questo pianeta esista.»
Vedendo che gli sembravo ancora poco convinto, aggiunse: «Perfino le sonde inviate ad esplorare il sistema solare non hanno mai rivelato nulla, non è così? Naturalmente, tu ed io stiamo giocando con le ipotesi, perché nessuno sa cosa facciano in realtà i Re-Sacerdoti, né come, né perché. Ciò che possiamo vedere e dobbiamo accettare è il semplice fatto che Gor esiste. Comunque vi sono alcuni indizi rivelatori che sulla Terra avrebbero potuto meglio considerare.»
Lo fissai senza capire, mentre scolavo l'ultima goccia di quel vinello frizzante. «Vale a dire quali?»
«Certi segnali radio, emanati su una particolare banda di frequenza,» disse lui. La mia faccia perplessa lo fece ridere. «È chiaro che, dando per scontata l'impossibilità dell'esistenza di un pianeta nascosto dal Sole, eventuali segnali radio vengono attribuiti a perturbazioni e scariche dell'atmosfera solare, che già emette un inferno di segnali su ogni lunghezza d'onda. A nessun astronomo serio o meno serio passerebbe per il capo d'esporre una teoria che lo farebbe segnare a dito dai colleghi.»
«Ma di quali segnali in particolare stai parlando?»
Lui scosse la testa, come se non intendesse spiegarsi meglio. «Te l'ho detto. C'è sempre una differenza fra i dati portati da certe onde radio e i dati ricevuti da un apparecchio. E la differenza sta nel modo in cui uno scienziato decide di interpretarli. Tu conosci la vecchia Terra, e sai che nell'ambiente scientifico la cosa di cui si ha più terrore è il ridicolo.»
Detto ciò, mio padre s'alzò in piedi. Girò attorno al tavolo e mi prese per le spalle fissandomi con aria compiaciuta. Come ad un segnale, la porta si riaprì in silenzio, e subito dopo egli uscì a passi rapidi. Non aveva detto una sola parola sul destino che mi attendeva lì, qualunque fosse, né aveva chiarito il motivo per cui ero stato rapito e portato su Gor. Non s'era pronunciato su altre questioni misteriose; tanto per dirne una, la lettera e il suo contenuto. Aveva lasciato senza risposta almeno una dozzina di domande molto importanti e, con mio disappunto, aveva evitato ogni accenno alle vicende successe a lui, al punto che la sua persona e ciò che stava facendo su Gor mi restavano ancora praticamente sconosciute. Avrei voluto invece sentirlo parlare di sé, e sapere chi era l'uomo la cui eredità genetica portavo in ogni mia cellula. Fissai senza vederla la porta chiusa.
So bene che non posso costringere nessuno a prendere per oro colato ciò che sto mettendo per iscritto su quel che mi accadde sul pianeta Gor. Io stesso potrei commentare una storia simile con un sorriso scettico, dichiarandola frutto di fantasia. Tutto ciò che posso fare è fornire una testimonianza il più possibile obiettiva e di lasciarla poi a chi legge, in attesa di giudizio. In quanto al desiderio di segretezza dei Re-Sacerdoti, sono certo che essi non mi prenderanno in considerazione più di tanto come possibile spia, e confideranno - ahimè con ottime ragioni - che questo resoconto trovi spazio al più presso i lettori delle riviste di fantascienza. Ma posso consolarmi col pensiero che la loro noncuranza mi consente almeno di far giungere ad altri le mie parole.
Mentre scrivo so già che è così, poiché i Re-Sacerdoti non sembrano porre ostacoli alla stesura del manoscritto. Potrei domandarmi per qual motivo si comportano così, dopo tutti gli sforzi compiuti per celare l'esistenza dellaContro-Terra, ma credo che la risposta a ciò sia abbastanza semplice. Può darsi che essi siano umani, e che in loro vi sia quindi il difetto umano della vanità. Se così fosse, non devono sentirsi contrariati nel veder trapelare certi loro misteri in forma romanzata, e di vederli divulgati presso uno strato della popolazione terrestre già corazzato dallo scetticismo verso simili argomenti. O forse,nell'Inviolabile si coltivano anche l'umorismo e l'ironia. Inoltre, anche qualora un lettore volesse credere alla solida realtà di Gor, alViaggio dell'Acquisto e a tutto il resto, che mai potrebbe fare? Niente. E, anche nel peggior caso immaginabile, nulla impedirebbe ai Re-Sacerdoti di far allontanare di nuovo il pianeta dal Sole, in cerca di un'altra stella fra le tante adatte che vi sono nella galassia, per poi magari ripopolarlo con nuove forme di vita a loro piacimento.
LA CITTÀ DELLE TORRI
L'ultima cosa che ricordo di quella notte sulle montagne del New Hampshire fu d'aver mosso un passo oltre la soglia dell'astronave discoidale, ed a questo punto la mia memoria s'interrompe bruscamente. Poi m'accorsi d'essere disteso e compresi che mi stavo risvegliando da un lungo sonno ristoratore; ma, nell'aprire gli occhi, m'aspettavo di vedere le familiari pareti della mia stanza all'ostello delcollege. Scorsi invece qualcosa di completamente diverso.
Giacevo su un lettino duro come un tavolaccio, al centro d'un locale circolare il cui soffitto era alto appena poco più di due metri. Sulla parete rotonda s'aprivano cinque finestrelle così strette che non avrebbero lasciato passare un bambino, e che dalla forma avrei detto fossero le feritoie d'un castello medievale. Daesse entrava una luce diurna molto viva e, tirandomi su a sedere con un grugnito, osservai il resto dell'arredamento.
Non c'era molto da vedere. Alla mia destra era appeso un arazzo di lana spessa su cui era ricamata una scena di caccia, che osservai sbattendo le palpebre. I cacciatori erano armati di lunghe picche, montavano in sella a grossi uccelli simili a rapaci e stavano dando addosso a una sorta d'enorme cinghiale fornito di zanne affilate come scimitarre. A parte il soggetto di stampo fantasioso, lo stile era d'un genere pre-rinascimentale, bucolico ed ingenuo ma non spiacevole.
Dalla parte opposta faceva bella mostra di sé uno scudo tondeggiante con sopra applicate due lance incrociate. Dal tipo avrebbe potuto esser scambiato per una classica egida greca, ed intorno all'umbone giostravano figure stilizzate che non avrebbero sfigurato su un antico vaso ellenico. Il disegno centrale mi risultò incomprensibile, e non seppi decidere se fosse un anagramma o una fantasia d'artista. Sullo scudo era appeso anche un elmo, o forse farei meglio a definirlo un cimiero, visto che lo stesso Achille non avrebbe esitato a metterselo in testa.
Quell'insieme di oggetti ispirava una bellicosa fierezza, ma dava anche l'impressione di non esser lì solo per ornamento, un po' come le armi che i Minuteman tenevano appese al muro per esser pronti ad usarle nel tradizionale spazio d'un minuto. Notai che sembravano tenute lustre e pulite dal continuo contatto di mani adatte ad impugnarle, e m'incuriosì la forma dell'elmo, fornito di una fenditura ad «Y» per gli occhi, mentre naso e bocca erano scolpiti nel metallo del coprifaccia.
A parte questi oggetti, un paio di blocchi di pietra che avrebbero potuto essere seggiole e un tappetino, il locale non conteneva altro. Muri e soffitto mi parvero in solido marmo bianco di buona qualità. Ma non c'era nulla che avesse l'aspetto d'una porta d'ingresso. Scesi dal piano su cui giacevo, constatando che si trattava d'un pesante tavolo anch'esso di marmo, e mi accostai ad una feritoia. Il cielo che vidi all'esterno era d'un azzurro assolutamente identico a quello della Terra, ed in esso brillava un sole che soltanto le dimensioni leggermente superiori distinguevano da quello a cui ero abituato. Era comunque una stella gialla della stessa classe spettrale. La mia prima impressione fu che mi trovavo ancora sulla vecchia e cara Terra, e che l'apparente maggior grandezza del sole era un'illusione ottica.
Trassi un profondo respiro e i miei polmoni si riempirono di buon ossigeno, cosa che mi confortò nella sicurezza di non esser stato trasportato su chissà quale pianeta lontano. L'atmosfera era quella giusta, riflettei fra me. Nello stesso tempo, però, ciò che i miei occhi vedevano mi stava facendo di nuovo cambiare idea, perché fuori da quella feritoia si stendeva un centro abitato d'aspetto assai poco terrestre. C'era un gran numero di torri cilindriche alte e dalla cima piatta, variamente colorate, traforate da strette finestrelle e collegate fra loro da una quantità di ponti ad arco leggeri e di bell'effetto. All'apparenza l'edificio in cui m'ero risvegliato aveva una struttura in tutto simile.
Il mio campo visivo non mi consentiva di scorgere il suolo, ma in distanza vidi colline ricoperte di vegetazione verde che avrebbe potuto essere erba o macchia molto fitta. Meravigliato, e chiedendomi se non fossi finito in una situazione pericolosa o sgradevole, tornai presso il tavolo.
Passai una mano sulla superficie di freddo marmo, ma intanto mi stavo accorgendo che in quel luogo c'era un'altra cosa diversa e inaspettata: il mio peso corporeo non era più lo stesso. Saltai al di là del tavolo e l'altezza del mio balzo fu superiore a quella che le mie gambe mi avrebbero normalmente dato. Feci qualche rapido passo, tentai ancora un saltello, e il mio stupore si trasformò in certezza: la gravità che mi attraeva al suolo era alquanto minore di quella terrestre.
Dunque m'avevano trasferito su un mondo meno denso o più piccolo del mio, il quale doveva ruotare attorno al sole ad una distanza che valutai sui 120 milioni di Km. Scartai subito l'ipotesi che fosse Venere: ciò che mi circondava non era certo un inferno d'anidride carbonica surriscaldata. Tuttavia ne sapevo abbastanza di astronomia per decidere che quella stella era quasi certamente il Sole.
Un'altra cosa mi avevano fatto: ero stato spogliato di tutti i miei vestiti ed ora indossavo una tunichetta rossa stretta alla vita da una cintura di cuoio giallo. Qualcuno doveva essersi preso la briga di farmi un bagno, perché la fanghiglia di cui m'ero impiastricciato sulle White Mountains era sparita. L'anello sul cui castone era incisa la «C» non mi era stato tolto, anzi me l'avevano infilato all'anulare della mano destra.
Più che mai sconcertato e anche un po' impaurito, sedetti sul tavolo e cercai di rimettere ordine nei pensieri per trarne qualche solida deduzione. Non venni a capo di niente. Mi sentivo come può sentirsi un bambino in fasce trasportato nel mezzo di un Luna Park, assalito da un universo d'immagini e di sensazioni a cui è difficile dare un significato.
Un rumore alle mie spalle mi fece trasalire, e vidi che nella parete s'era aperta una porta nascosta. Sulla soglia c'era un individuo di mezza età, robusto e rosso di capelli, che venne subito dentro. Non avevo saputo cosa aspettarmi, e fui sollevato nel vedere che su quel pianeta abitava gente del tutto umana. Anche lui indossava una tunichetta della stessa foggia, con cintura e sandali di cuoio. Sorrise amichevolmente e mi appoggiò le mani sulle spalle, non meno che se fossi stato un suo vecchio e affezionato conoscente.
«Tarl, figlio mio!», esclamò.
«Ma cosa...» riuscii appena a balbettare, stupefatto.
«Sono tuo padre, ragazzo.»
L'uomo rise, afferrandomi una mano e stringendola fra le sue, divertito dalla meraviglia che dovevo aver dipinta sulla faccia. Mi chiese se m'ero svegliato bene ed io risposi di sì. La sua faccia mi era nuova e sconosciuta, ma io ero uno straniero su un mondo che non era la Terra e faticavo a convincermi della realtà della situazione, eppure quello era mio padre.
«Come sta la mamma, figliolo?»
«Morta e sepolta. Un bel po' di tempo fa,» borbottai.
«Ah!» Corrugò le sopracciglia, scosse il capo e disse: «Mi dispiace molto. Le volevo bene davvero. Fra tutti voi mi era la più cara.»
Attraversò la stanza e si mise a guardare fuori da una finestrella, con atteggiamento fra addolorato e pensoso, ma io mi chiedevo quanto poteva esserci d'autentico in quella sofferenza. Non avevo nessuna intenzione di provare affetto e simpatia per lui. Aveva lasciato mia madre a lottare con la miseria in un sobborgo di Bristol, e per me non aveva fatto altro se non appiopparmi un nome insolito. Adesso cos'aveva da mettersi a ruminare ricordi lacrimevoli? Che motivo aveva di compiangere una donna per cui proprio lui era stato fonte di infelicità? Inoltre non mi era piaciuta troppo quella sua frase «Fra tutti voi mi era la più cara». Cosa intendeva dire? non avevo nessuna voglia di saperlo.
Ma intanto che dicevo questo a me stesso, sentivo anche il desiderio d'avvicinarmi a lui e di mettergli una mano su una spalla, di toccarlo e di fargli capire che infine non ce l'avevo con lui, perché fra me e quell'uomo c'era un legame di sangue che era un legame di vita, e d'un tratto m'avvidi di avere gli occhi umidi. Qualcosa di oscuro si muoveva in me, riaffioravano memorie che non sapevo di avere: il ricordo d'un volto di donna dolce e gentile e di due braccia che mi stringevano con amore. E accanto a quello di lei un altro viso, mascolino e sorridente. Mi morsi le labbra.
«Padre,» sussurrai.
Lui si raddrizzò e si voltò, fissandomi senza aprir bocca. Aveva un'espressione indecifrabile, e non potei capire se era quella di un uomo che ha appena ingoiato qualche lacrima, ma certo c'era una sorta di angoscia sul suo volto severo. Guardandolo dritto negli occhi, compresi che di lui non sapevo proprio niente, e che forse m'ero sbagliato nel giudicarlo, perché il modo in cui mi osservava esprimeva un affetto silenzioso su cui non potevo ingannarmi.
«Ragazzo mio... Tarl,» disse sottovoce.
Un momento dopo lo stavo abbracciando forte, piangendo, ed anch'egli mi teneva stretto a sé senza nascondere le lacrime. Più tardi avrei appreso che quello sfoggio d'emozioni non era considerato affatto sintomo di sdolcinatezza nel mondo in cui ero stato portato. Anzi, al contrario di quanto accade con l'ipocrito moralismo terrestre, esprimere con pienezza le proprie emozioni veniva giudicata cosa degna di rispetto e di stima.
Quando mi lasciò, si asciugò gli occhi con un gesto calmo, studiandomi con un sorriso simile ad una smorfia triste. «Non la dimenticherò, credimi. Non fu per mia volontà che lasciai tua madre.»
Rimasi zitto. Come se avesse intuito il mio groviglio di emozioni, lui tornò serio. La sua voce cercò di suonare brusca:
«Ho apprezzato molto il tuo regalo, Tarl Cabot,» dichiarò.
Visto poi che non capivo, disse ancora: «Voglio dire la terra. Una manciata del mio suolo natale.»
Scossi appena il capo. Volevo che continuasse a parlare, che rispondesse alle cento domande che mi frullavano nella mente, che mi spiegasse quali misteri c'erano dietro la sua e la mia presenza lì, dietro l'esistenza stessa di quel pianeta tanto simile alla Terra, e soprattutto per quale motivo ero stato prelevato dal mio pianeta e dalla mia vita.
«Devi essere piuttosto affamato, vero?», disse invece lui.
«Affamato di notizie, padre. Cosa sto facendo qui? E dove...»
«Naturalmente, certo,» m'interruppe. Poi sorrise. «Ma intanto ti conviene mangiare un boccone. Mentre ti riempi lo stomaco parleremo di tutto questo. Va bene?»
Batté le mani due volte e la porta, che s'era chiusa, si riaprì nuovamente. Spalancai gli occhi. Nella cornice d'ingresso era comparsa una ragazza bionda e decisamente bella, una giovane fata dagli occhi blu sulla quale fui costretto ad inchiodare uno sguardo d'ammirazione. Indossava una tunichetta alla schiava quasi indecente sotto cui s'indovinava un corpo delizioso, ed il suo unico ornamento, sempre che si trattasse di un ornamento, era un collare metallico che le circondava il collo aggraziato. Depose sul tavolo un vassoio colmo di cibi assortiti ed uscì svelta com'era entrata.
Mio padre non l'aveva degnata di uno sguardo, ma aveva notato la luce che s'era accesa nelle mie pupille.
«Se la vuoi, stanotte potrai averla,» disse.
Non fui sicuro d'aver capito bene cosa volesse dire, e tacqui. Lui mi indicò uno dei sedili di pietra accostati al tavolo e insisté perché cominciassi subito a mangiare. Era cibo semplice, che dapprima esitai ad assaggiare perché avrei voluto piuttosto parlare e chiedere spiegazioni, ma l'appetito l'ebbe vinta e mi portai alla bocca un cosciotto succulento, la carne sembrava avere il caratteristico sapore della cacciagione, ed era stata rosolata sulla fiamma viva. La frutta, che consisteva in grappoli d'uva e pesche non troppo dissimili da quelle terrestri, era succosa e fresca come appena colta. Mi versai un boccale di vino e lo trovai frizzante, molto alcolico e migliore per ubriacarsi in allegria che per accompagnare un pasto. Più tardi mi avrebbero insegnato che si chiamavaKa-la-na, una qualità locale. Ma, nel frattempo, mio padre aveva finalmente deciso di cominciare a parlare.
«Il nome di questo pianeta è Gor,» disse. «E la stessa stella a cui ruota intorno è il nostro vecchio Sole. Come distanza, ci troviamo più o meno a metà fra l'orbita di Venere e quella della Terra. Il nome Gor ha un preciso significato. Qui abbiamo parecchie lingue diverse, ma in ognuna esso significaPietra della Casa, o anchePietra del Focolare.»
«Gor,» ripetei io, annuendo.
«Nei paesetti di campagna sparsi dappertutto,» spiegò lui, «ogni casupola viene edificata attorno ad un centro costituito da una pietra piatta, sulla quale è inciso il nome di famiglia o lo stemma del fondatore della comunità, e perciò essa viene chiamata laPietra della Casa. Si tratta di un simbolo di sovranità territoriale, e in effetti ogni membro della comunità domina su un territorio sovrano che gli appartiene di diritto.»
«Capisco,» dissi, addentando una pesca.
«Col passare del tempo, moltePietre della Casa finirono con l'essere il centro di vere e proprie città. Nei villaggi esse si trovano in quella che è tradizionalmente la piazza del mercato, mentre nelle grandi città l'uso vuole che siano tenute sulla cima della torre più alta. Dunque tu comprendi che per la gente laPietra della Casa è gravida di significati mistici e simbolici, un po' come le bandiere nazionali sulla Terra.»
Dicendo questo si era alzato ed aveva preso a camminare avanti e indietro per il locale, con lo sguardo acceso da una vivacità che lì per lì non sapevo spiegarmi. In seguito appresi che quando un abitante di Gor parla di questo argomento, ed in particolare della suaPietra della Casa, lo fa sempre stando in piedi e in tono un po' enfatico. Questo, come altre forme d'orgoglio campanilistico, è un costume che ha le sue origini nel lontano passato d'un pianeta i cui codici d'onore di stampo spesso barbarico sono rigidamente rispettati.
«Queste pietre, ragazzo mio, sono quasi tutte diverse come forma, colore e altezza, e molte di esse sono scolpite in modo assai complesso. Alcune delle maggiori città hannoPietre della Casa piccole e all'apparenza insignificanti, ma d'incredibile antichità. Le più rispettate risalgono all'epoca lontana e dimenticata in cui l'abitato era ancora un borgo primitivo, e alcune di esse appartenevano addirittura a condottieri nomadi che le poggiano là dove stabilivano il loro accampamento. Le tradizioni di questo genere sono importantissime.»
Mio padre fece una pausa e si volse a guardare all'esterno. Per un paio di minuti restò davanti alla finestra, volgendomi le spalle, poi si schiarì la gola e riprese il discorso là dove l'aveva lasciato:
«Nel luogo in cui un uomo depone la suaPietra della Casa c'è il suo focolare e, legalmente, quel terreno diventa sua proprietà privata. Come immaginerai, ciò può dare origine a dispute. La terra può essere buona o può non esserlo ma, quando è ben fertile, capita che la si debba difendere con la spada dalla cupidigia di eventuali vicini forti e minacciosi.»
«Con la spada?», domandai, stupito.
«Ma sicuro!», esclamò lui, sorridendo come se avesse detto la cosa più naturale del mondo. «Ah, vedo che hai proprio bisogno di imparare anche le cose più elementari della vita su Gor, ragazzo. Qui esiste quella che potremo chiamare una grande quantità di dinastie, ognuna imperniata sulla propriaPietra della Casa. Le questioni di proprietà e di confine, inconciliabili in altri modi, vengono regolate con la spada. Chi vuole guadagnarsi un pezzo di terra fertile, dev'essere disposto a battersi, prima per conquistarselo e poi per difenderlo.»
«Un giorno o l'altro,» riprese dopo una pausa, «ti mostrerò la mia piccolaPietra della Casa, che tengo in camera mia. Contiene una manciata del buon suolo della Terra, che portai con me quando venni per la prima volta su questo pianeta.» Mi fissò acutamente, e poi dichiarò con estrema calma: «Aggiungerò ad essa quella che mi hai portato tu, e un giorno questa terra ti apparterrà... sempre ché tu viva abbastanza da guadagnarti la tuaPietra della Casa, beninteso.»
Io mi forbii la bocca col dorso di una mano e mi alzai. Lo sguardo di mio padre si era fatto offuscato e distante.
«Il sogno ricorrente di ogni conquistatore o uomo di stato è quello di possedere laSuprema Pietra della Casa, la pietra che gli dà la potestà sull'intero pianeta di Gor,» disse senza guardarmi. «Si racconta che laSuprema Pietra della Casa sia non dissimile da tante altre, ma nessuno che io conosca l'ha mai vista. Si trova nell'Inviolabile,un luogo tanto sacro quanto irraggiungibile, ed è il simbolo su cui si fonda il potere dei Re-Sacerdoti, che risiedono là.»
«Chi diavolo sono i Re-Sacerdoti?», chiesi.
Mi fissò improvvisamente corrucciato, quasi che gli sembrasse d'aver già detto più di quanto non desiderasse. Per qualche minuto né lui né io parlammo.
«Non hai torto,» borbottò infine, ritrovando il sorriso. «Credo che dovrò parlarti anche dei Re-Sacerdoti. Ma adesso torniamo agli argomenti più immediati, altrimenti non potrai capire ciò che dico. Sediamoci.»
Quando ci fummo sistemati sui sedili di pietra, ciascuno a un lato del massiccio tavolo, riprese ad illustrarmi la realtà di quel mondo con parole metodiche e ponderate.
Mio padre si riferiva al pianeta Gor chiamandolo anche la Contro-Terra, prendendo quest'espressione dagli scritti di certi matematici post-pitagorici che avevano per primi speculato sull'esistenza di un tale mondo. Abbastanza significativo trovava il fatto che una delle parole di Gor per indicare il Sole fosse Lar Torvis, ovverosia il Fuoco Centrale, termine che quei matematici usavano per definire la posizione del Sole rispetto a tutti gli altri corpi celesti. L'espressione popolaresca era invece Tar-tu-Gor, che significa laLuce sopra la Pietra della Casa. Fra la gente comune esisteva una setta di adoratori del Sole, il numero dei quali era però insignificante se paragonato a quello di coloro che veneravano invece i Re-Sacerdoti. Tali personaggi venivano temuti e adorati come degli Dèi, e perfino dalla bocca dei più forti guerrieri si potevano udire, in situazioni di pericolo, preghiere e invocazioni rivolte ad essi.
«I Re-Sacerdoti,» mi rivelò mio padre, «sono eterni e immortali. O quantomeno questa è la credenza più diffusa.»
«Ed anche tu lo credi?»
«Non lo so.» Alzò le spalle. «Forse è davvero così.»
«Ma cosa sono, in realtà?»
«Degli Dèi, probabilmente.»
«Vuoi prendermi in giro?»
«No di certo. Ti sto riferendo ciò che pensa la gente. Del resto non è forse vero che al di là della vita e della morte c'è qualcuno o qualcosa di trascendentale?»
Visto che restavo in silenzio, riprese: «Per quel che valgono le mie supposizioni, potrei credere che i Re-Sacerdoti siano umani in tutto, o addirittura più che umani. Oppure potrebbero essere creature umanoidi. Comunque sono esseri in possesso di una scienza e di una tecnologia in confronto alla quale quella terrestre è poco più che alchimia medievale.»
Quest'ultima dichiarazione mi parve almeno fondata, visti i fatti che mi avevano appena avuto come protagonista e vittima insieme. Sulle White Mountains mi ero trovato in presenza di forze all'apparenza incomprensibili, che tuttavia potevano essere spiegate con l'esistenza di una capacità scientifica superiore a quella umana. Sia il terrore che m'aveva offuscato la mente, sia il potere da cui ero stato di nuovo trascinato al campo, sia i disturbi della bussola, dovevano essere stati originati da strumenti assai evoluti. La nave discoidale era chiaramente il prodotto d'una scienza avanzatissima. Tutto ciò che m'era accaduto trovava la sua origine negli strumenti tecnici di cui erano forniti i dominatori di Gor. Ma, più che spiegarmi i fatti, questo creava in me altre domande. Ero teso nello sforzo di convincermi che tutto quanto non era frutto d'un sogno.
«I Re-Sacerdoti hanno stabilito questa loro sede,l'Inviolabile, nel mezzo delle montagne di Sardar, una vastissima zona montagnosa e accidentata nella quale chi ci tiene alla vita non si azzarda a penetrare. È una terra considerata tabù, e piena di pericoli sconosciuti. Se pure qualcuno è riuscito ad addentrarvicisi, non è mai tornato indietro a raccontarlo. «Qui lo sguardo di mio padre si fece ancora lontano e cupo, come se vi fossero cose che preferiva dimenticare. Dopo un breve silenzio riprese: «Si ha notizia di gruppi di idealisti o di ribelli che in varie epoche hanno intrapreso l'ascesa di quelle gelide e dirupate montagne, lasciandoci la vita fin dall'inizio. Non ci sono piste né sentieri e, osservata dall'esterno, la zona appare piena di barriere insuperabili. Membra e frammenti corporei di fuorilegge e di fuggiaschi che avevano cercato rifugio sulle Montagne di Sardar sono stati ritrovati in pianura, spesso assai lontano, come rosicchiati e spezzati da denti o becchi di qualche animale.»
Mi versai ancora un boccale di vino, senza saper cosa pensare. Solo allora mi accorsi che l'avevo quasi finito, bevendo distrattamente mentre ascoltavo. Mi sentivo già un tantino alticcio, e feci alcuni lunghi respiri per schiarirmi le idee.
«Qualche volta,» disse lui a bassa voce, «capita che un disperato o un vecchio non ancora stanco della vita tenti l'impresa nella speranza di scoprire laggiù il segreto dell'immortalità. Ma se mai uno di loro l'ha davvero trovato, certo non è poi tornato a vantarsene né si è mai più rivisto nella Città delle Torri. Qualcuno ha azzardato l'ipotesi che i più fortunati di costoro, una volta raggiuntol'Inviolabile, divengano essi stessi Re-Sacerdoti. Ma chi può saperlo? La mia opinione, così come l'opinione del popolo è che, cercare di svelare i segreti dei Re-Sacerdoti, significhi sempre morire e per di più in un modo atroce.»
«Ma è solo una tua idea. Non è così?»
«Infatti. Ognuno è libero di costruirsi le congetture che vuole,» ammise lui, alzando le spalle.
Dai fatti e dalle leggende che poi mi raccontò brevemente, conclusi che i motivi per considerare divini i Re-Sacerdoti non mancano. Il loro potere era enorme, e consentiva loro di distruggere o di tener sotto controllo chiunque e dovunque. Si diceva che fossero al corrente di ogni fatto che accadeva sul pianeta, ma che nello stesso tempo non si degnassero di far troppo caso alle vicende umane.
Mio padre si disse certo che fra le loro montagne si dedicavano a coltivare una sorta di felicità o di beatitudine artificiale, e che tutto il resto appariva loro privo di vera importanza. Erano, così affermò, divinità solide e reali ma remote, lontane dalle passioni e dalle sventure che assillavano l'esistenza quotidiana dei mortali. Per la verità queste mi facevano l'effetto di fantasie popolaresche, perché la loro ricerca della beatitudine stonava molto col destino che riservavano a chi osava avvicinare la loro roccaforte. Trovavo difficile considerarli per metà santoni e per metà spietati uccisori di uomini.
«Questo loro disinteresse non è assoluto, perché c'è un campo in cui interferiscono sempre nelle faccende umane. Si tratta della tecnologia. I Re-Sacerdoti ne impediscono lo sviluppo, concedendone un uso limitato agli Uomini delle Montagne. Può sembrarti inspiegabile, eppure su Gor esistono due civiltà tecnologiche diversissime e separate: da una parte quella immensamente evoluta dei Re-Sacerdoti, e dall'altra quella umana le cui più terribili armi da guerra sono l'arco e la lancia. Noi, comuni esseri umani, non possediamo neppure mezzi di trasporto e di comunicazione: niente civiltà meccanica e niente elettricità.»
«Per contro,» proseguì con un sospiro, «potrai renderti conto che, in alcune cose, noi mortali e gli Uomini delle Montagne siamo abbastanza progrediti, ad esempio in agricoltura, in medicina ed in altre scienze di minor conto. Suppongo che ora ti domanderai perché mai qualcuno non cerca di porre rimedio a questo stato di cose, magari cercando di introdurre armi da fuoco o veicoli a motore. Non sono gli uomini capaci e intelligenti che mancano, qui su Gor.»
«E allora quali difficoltà ci sono?»
«Molto semplice, ragazzo mio. Non solo il progresso tecnologico è proibito, ma esso viene drasticamente impedito con l'uso spietato della forza. Chi ha provato a costruire macchine appena un po' sofisticate se le è viste distruggere... bruciare, andare in fiamme d'un colpo. E ci ha rimesso la vita.»
«Bruciare? Intendi dire come la busta di metallo azzurro?»
«Proprio così. È quella che viene chiamata laMorte di Fuoco. I tentativi di creare armi o macchinari ci sono stati, ed i loro autori sono stati spesso capaci d'evitare per un poco quel destino, talvolta per più di un anno. Ma, prima o poi, laMorte di Fuoco è sempre piombata su di loro, infallibile e tremenda. Io stesso l'ho visto accadere, una volta,» terminò, accigliato.
Era chiaro che non gli avrebbe fatto piacere darmi maggiori ragguagli, così cambiai discorso: «Cosa puoi dirmi dell'astronave che mi ha portato qui? È anch'essa un prodotto della tecnologia dei Re-Sacerdoti?»
«Ne dubitavi?» Mi sorrise. «Tuttavia non credo che a pilotarla fosse un Uomo delle Montagne.»
«Un Re-Sacerdote, allora?»
«No, neppure. Senza poterne esser certo, direi che era controllata a distanza, dalle Montagne di Sardar. Si dice che la cosa avvenga a questo modo, nelViaggio dell'Acquisto.»
«Dell'Acquisto?»Inarcai un sopracciglio. «Dunque sono stato acquistato?»
«Se ti piace dir così. La stessa cosa capitò a me molto tempo fa. Ed anche ad altri.»
«Ma tutto questo che scopo ha? Perché un individuo della Terra deve vedersi trasportato qui su Gor?»
«Gli scopi sono sempre diversi. Ciascun individuo per uno scopo,» tagliò corto lui.
Passò a darmi altre informazioni sul pianeta che mi trovavo sotto i piedi. Come raccontavano gli Adepti, ovvero coloro che fungevano da intermediari fra i Re-Sacerdoti ed i mortali, Gor in origine aveva fatto parte del sistema solare di un'altra stella, in uno di quei lontanissimi ammassi stellari che egli chiamò le Galassie Blu. I Re-Sacerdoti lo avevano tolto dalla sua orbita e portato a navigare nel cosmo alla ricerca di un'altra stella, e questa fantastica migrazione era già avvenuta più d'una volta.
La storia mi sembrava incredibile. Nell'universo le distanze intergalattiche sono inimmaginabili, ed anche alla velocità della luce richiederebbero periodi di tempo incommensurabilmente lunghi. Durante un tragitto del genere, nessun pianeta avrebbe potuto conservare una parvenza di vita sulla sua superficie, e se ciò era accaduto davvero, allora Gor era stato per miliardi e miliardi di anni una palla di ghiaccio morta fin nel più profondo delle sue viscere, senza neppure un'atmosfera.
Anche accettando per vera la cosa, si poteva fare un buon taglio a quelle fantasie e supporre che Gor fosse stato spostato nel nostro sistema solare da una delle stelle più vicine, come ad esempio Alpha Centauri. La distanza era sempre notevolissima ma, con uno sforzo d'immaginazione, fin lì ci arrivavo. In via teorica potevo anche ammettere che una scienza superumana potesse farlo e tutelare al contempo l'ambiente ecologico del pianeta, però non riuscivo a pensare a quali immensi mezzi fossero occorsi. Insomma, mi si stava dicendo che Gor era stato per lunghi periodi della sua storia una sorta di nave interstellare, ed io ero lì a lambiccarmi il cervello per cercare il modo di crederci.
C'era un'altra ipotesi che infine espressi a mio padre: quella che Gor fosse sempre stato all'interno del nostro sistema solare, ignorato e mai scoperto per qualche misteriosa ragione. Non ci credevo neppure io, e l'idea avrebbe fatto sghignazzare un astronomo terrestre, ma con mia sorpresa lui parve considerarla plausibile.
«Questa,» disse vivacemente, «è la cosiddetta Teoria dello Scudo Solare. Ed è il motivo per cui alcuni chiamano Gor laContro-Terra. Si basa sul fatto, praticamente accertato, che il pianeta ruota intorno al Sole con un'orbita e una velocità tale da restare sempre in congiunzione con la Terra, ovverosia col Sole in mezzo a far da scudo.»
«Scientificamente non è possibile crederci. Qualsiasi idiota di astronomo dilettante scoprirebbe subito la sua esistenza, deducendola dalle interferenze gravitazionali con le orbite degli altri pianeti,» affermai con sicurezza. «Plutone è stato scoperto proprio a questo modo, pur piccolo e lontanissimo com'è.»
«Tu sottovaluti la scienza dei Re-Sacerdoti, ragazzo mio,» sogghignò lui. «Esseri che sono stati capaci di spostare Gor su distanze intergalattiche, possono ingannare eventuali osservatori con l'uso delle tecniche appropriate.
«L'equilibrio gravitazionale all'interno del sistema solare deve risultare alterato per forza dalla presenza di Gor, e non vedo come se ne potrebbero mascherare gli effetti.
«I campi di gravità possono essere controllati. È mia opinione che i Re-Sacerdoti riescano a farlo senza difficoltà, annullando le ripercussioni che quello di Gor avrebbe sugli altri pianeti. E, se vuoi sottilizzare, non mancherebbero altri generi d'indizi che potrebbero rivelare la sua presenza. Ad esempio le onde radio. Ma credo che essi riescano in qualche modo a deformare la struttura dello spazio intorno a Gor. Del resto l'evidenza parla da sé: nessun astronomo terrestre ha mai sospettato che questo pianeta esista.»
Vedendo che gli sembravo ancora poco convinto, aggiunse: «Perfino le sonde inviate ad esplorare il sistema solare non hanno mai rivelato nulla, non è così? Naturalmente, tu ed io stiamo giocando con le ipotesi, perché nessuno sa cosa facciano in realtà i Re-Sacerdoti, né come, né perché. Ciò che possiamo vedere e dobbiamo accettare è il semplice fatto che Gor esiste. Comunque vi sono alcuni indizi rivelatori che sulla Terra avrebbero potuto meglio considerare.»
Lo fissai senza capire, mentre scolavo l'ultima goccia di quel vinello frizzante. «Vale a dire quali?»
«Certi segnali radio, emanati su una particolare banda di frequenza,» disse lui. La mia faccia perplessa lo fece ridere. «È chiaro che, dando per scontata l'impossibilità dell'esistenza di un pianeta nascosto dal Sole, eventuali segnali radio vengono attribuiti a perturbazioni e scariche dell'atmosfera solare, che già emette un inferno di segnali su ogni lunghezza d'onda. A nessun astronomo serio o meno serio passerebbe per il capo d'esporre una teoria che lo farebbe segnare a dito dai colleghi.»
«Ma di quali segnali in particolare stai parlando?»
Lui scosse la testa, come se non intendesse spiegarsi meglio. «Te l'ho detto. C'è sempre una differenza fra i dati portati da certe onde radio e i dati ricevuti da un apparecchio. E la differenza sta nel modo in cui uno scienziato decide di interpretarli. Tu conosci la vecchia Terra, e sai che nell'ambiente scientifico la cosa di cui si ha più terrore è il ridicolo.»
Detto ciò, mio padre s'alzò in piedi. Girò attorno al tavolo e mi prese per le spalle fissandomi con aria compiaciuta. Come ad un segnale, la porta si riaprì in silenzio, e subito dopo egli uscì a passi rapidi. Non aveva detto una sola parola sul destino che mi attendeva lì, qualunque fosse, né aveva chiarito il motivo per cui ero stato rapito e portato su Gor. Non s'era pronunciato su altre questioni misteriose; tanto per dirne una, la lettera e il suo contenuto. Aveva lasciato senza risposta almeno una dozzina di domande molto importanti e, con mio disappunto, aveva evitato ogni accenno alle vicende successe a lui, al punto che la sua persona e ciò che stava facendo su Gor mi restavano ancora praticamente sconosciute. Avrei voluto invece sentirlo parlare di sé, e sapere chi era l'uomo la cui eredità genetica portavo in ogni mia cellula. Fissai senza vederla la porta chiusa.
So bene che non posso costringere nessuno a prendere per oro colato ciò che sto mettendo per iscritto su quel che mi accadde sul pianeta Gor. Io stesso potrei commentare una storia simile con un sorriso scettico, dichiarandola frutto di fantasia. Tutto ciò che posso fare è fornire una testimonianza il più possibile obiettiva e di lasciarla poi a chi legge, in attesa di giudizio. In quanto al desiderio di segretezza dei Re-Sacerdoti, sono certo che essi non mi prenderanno in considerazione più di tanto come possibile spia, e confideranno - ahimè con ottime ragioni - che questo resoconto trovi spazio al più presso i lettori delle riviste di fantascienza. Ma posso consolarmi col pensiero che la loro noncuranza mi consente almeno di far giungere ad altri le mie parole.
Mentre scrivo so già che è così, poiché i Re-Sacerdoti non sembrano porre ostacoli alla stesura del manoscritto. Potrei domandarmi per qual motivo si comportano così, dopo tutti gli sforzi compiuti per celare l'esistenza dellaContro-Terra, ma credo che la risposta a ciò sia abbastanza semplice. Può darsi che essi siano umani, e che in loro vi sia quindi il difetto umano della vanità. Se così fosse, non devono sentirsi contrariati nel veder trapelare certi loro misteri in forma romanzata, e di vederli divulgati presso uno strato della popolazione terrestre già corazzato dallo scetticismo verso simili argomenti. O forse,nell'Inviolabile si coltivano anche l'umorismo e l'ironia. Inoltre, anche qualora un lettore volesse credere alla solida realtà di Gor, alViaggio dell'Acquisto e a tutto il resto, che mai potrebbe fare? Niente. E, anche nel peggior caso immaginabile, nulla impedirebbe ai Re-Sacerdoti di far allontanare di nuovo il pianeta dal Sole, in cerca di un'altra stella fra le tante adatte che vi sono nella galassia, per poi magari ripopolarlo con nuove forme di vita a loro piacimento.
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