mercoledì 29 dicembre 2010
domenica 26 dicembre 2010
sabato 25 dicembre 2010
martedì 21 dicembre 2010
D'inverno
D’inverno
È dunque d’inverno son coperte e chiuse le tue cosce.
Di calze oppure di tela o gonne mosce
Li cova tra i semi chiusi al buio sommesso.
Un vagito caldo impetuoso carico di sesso
Pare quasi che il cuore si scateni
Mentre godi ed inarchi le tue reni
Fuor che sia freddo oppure gelato
Nel tuo mondo altra troia hai generato
È dunque d’inverno son coperte e chiuse le tue cosce.
Di calze oppure di tela o gonne mosce
Li cova tra i semi chiusi al buio sommesso.
Un vagito caldo impetuoso carico di sesso
Pare quasi che il cuore si scateni
Mentre godi ed inarchi le tue reni
Fuor che sia freddo oppure gelato
Nel tuo mondo altra troia hai generato
domenica 19 dicembre 2010
capitolo terzo
Capitolo Terzo
IL GRIFONE
«Dovrò forse gettarmi giù dalla finestra, per trovare un po' di vera e de-finitiva pace?», singhiozzò drammaticamente Torm, levando al cielo le braccia magre.
Il giovanotto, il più improbabile membro della Casta degli Scrivani che vi fosse nella Città delle Torri, si copri il volto con un lembo della sua scalcinata tonaca blu come a ripudiare la vista della mia persona e del resto del mondo. I suoi slavati occhi celesti, piazzati ai lati di un secco naso ad uncino, emersero di nuovo dal riparo di stoffa per fissarmi con disperazio-ne.
«Cos'ho fatto per meritarmi questo? Sentiamo, cos'ho fatto di male?», mi accusò. «Perché proprio io, un emerito idiota, devo vedermi afflitto da altri idioti ancora peggiori? Forse lassù, nel luogo da cui tu sei piombato sulle mie spalle, si crede che io sia alla ricerca di oziosi stratagemmi per passare il tempo? Guarda qui, e là: carrettate di libri, di fascicoli, di pergamene, di appunti, e tutti ancora in attesa che io disponga d'un minuto libero per stu-diarmeli!»
«Non mi hanno detto che eri tanto occupato,» mi scusai.
«Non glielo hanno detto!», gemette lui. «Ho tanto da fare, che sono stato costretto a diventare sonnambulo per lavorare anche quando dormo. Guar-dati attorno. Sono trascorsi due anni dal giorno in cui mi feci prestare una scopa per spazzare, ma quel diabolico oggetto andò subito smarrito nella confusione, e da allora neppure uomini arditi e capaci sono riusciti a ritro-varlo più!»
Il locale era certamente il più caotico e disordinato che avessi mai visto su Gor. Sulla grande e malandata tavola di legno erano affastellate pile di fogli, boccette d'inchiostro in malcerto equilibrio, penne, carte assorbenti, matite smozzicate, libri rilegati a mano, tagliacarte, e un assortimento d'oggetti vari che ne occupavano il piano fino all'ultimo millimetro. Il pa-vimento era ingombro di scartafacci e manoscritti dai fogli sciolti, ammuc-chiati presso le pareti, mentre sugli scaffali di legno era già stato poggiato o compresso tutto ciò che era possibile farvi stare, compresi dei capi di biancheria sporca. Il letto in un angolo aveva l'aspetto di una cuccia per cani, e le lenzuola non dovevano esser state cambiate da mesi, sebbene dal colore avrei detto che ogni tanto le rivoltava, tutti i suoi oggetti personali erano seppelliti e dispersi in cumuli di ciarpame da cui le pile dei libri pol-verosi emergevano come torri di guardia.
Una delle due finestre della stanza aveva una forma stupidamente irrego-lare, forma venuta a crearsi dopo che Torni, irritato per la scarsa luce che ne entrava, l'aveva allargata a colpi di piccone raffazzonandone alla meglio l'intelaiatura. Sotto il tavolo, e così pericolosamente vicino ad esso da ab-brustolirne la vernice, un grosso braciere fungeva da impianto di riscalda-
mento. Bruciature annerite su tutte e quattro le gambe testimoniavano che i principi d'incendio erano una seccatura a cui ormai Torm sapeva porre rimedio.
Il giovanotto affermava che lì dentro d'inverno si piangeva per il freddo e d'estate non si dormiva per il caldo, mentre inconvenienti che andavano dalle cimici agli attacchi di malinconia gli insidiavano atrocemente le notti senza differenza di stagione. Adesso eravamo in inverno, il raffreddore era la battaglia che stava combattendo, e strisce umide su entrambe le maniche della sua tonaca da Scrivano rivelavano che possedeva un sistema rapido per pulirsi il naso senza fazzoletto. Le lamentele sul prezzo del carbone e le imprecazioni contro il freddo rappresentavano in quel periodo i tre quar-ti dei suoi discorsi più accalorati.
Fisicamente era magro, allampanato, e ricordava un fenicottero che ogni tanto sbattesse le ali squittendo contro le nequizie del mondo in cui era costretto a vivere. Sulla sua tonaca blu si potevano individuare, da qualsia-si parte la si osservasse, almeno una dozzina di scuciture alcune delle quali semiaggiustate da mani a dir poco inette. Uno dei suoi sandali di cuoio era stato raffazzonato con una legatura di spago, ed un capo di questo spago egli se lo trascinava dietro bestemmiando ogni volta che vi inciampava.
Nelle poche settimane trascorse dal mio arrivo su Gor, avevo avuto mo-do di constatare che quella gente metteva una cura meticolosa nell'abbi-gliamento, sfiorando talvolta la ricercatezza e l'eleganza più sofisticata, e teneva moltissimo alla propria apparenza esteriore ma, a quanto pareva, le inclinazioni di Torm viaggiavano su binari suoi personali. Di vanità come la pulizia e l'ordine nel vestire, venivano da lui rimproverati tutti coloro che, come me, avevano la sfortuna di dover sopportare le sue battute acide.
E tuttavia, malgrado l'estrema eccentricità e la petulanza esasperante, Torm era dotato di qualità che ero costretto ad ammirare: un genuino senso dell'umorismo, l'assoluta mancanza di ipocrisia, una gentilezza innata, l'a-more per le cose belle, ed il fatto che sapeva vedere gli aspetti buoni perfi-no delle persone meno meritevoli.
Amava teneramente i suoi libri maltenuti, ed amava gli autori che li ave-vano scritti secoli addietro. Apparteneva a quella ridotta schiera di cinici che sanno storcere la bocca di fronte al mondo intero e tuttavia poteva farsi venire le lacrime agli occhi osservando dei bambinetti che giocavano su un prato. E se il suo sguardo non riusciva a vedere gli strappi della veste che indossava, poteva però smarrirsi nel verde di una campagna incolta scor-gendovi bellezze che per altri non esistevano neppure. Per incredibile che
possa sembrare, non avevo mai dubitato che fosse proprio lui il miglior insegnante a Città delle Torri, come mio padre aveva dichiarato.
Con aria pigra e disgustata, il giovanotto frugò tra i mucchi di libri, met-tendosi carponi per farsi largo fra essi, e ne pescò fuori un volumetto dalla copertina metallica chiusa con un fermaglio. L'aprì all'altezza di un segna-libro e sedette accanto a me, mostrandomi la pagina. Era un abbecedario.
«Al-ka», esclamò, battendo l'indice su una delle figure disegnate a ma-no.
«Ael-kae,» ripetei io, sbagliando completamente la pronuncia.
Torm mi fissò ostentando un'enorme pazienza. «No, testone d'un anglo-sassone dalla bocca storta. Al-ka, al-ka!»
«El-kaa,» dissi, con uno sforzo.
Torm ridacchiò, scosse il capo e si voltò a recuperare un calamaio dal caos del tavolo. «Ecco qua,» mi informò. «Guardati un al-ka al naturale, amico, così potrai sapere cosa ti vuoterò sul capo, sull'anima di mio nonno, se sbaglierai ancora a pronunciare il suo dannatissimo nome!»
Le settimane seguenti mi videro immerso in un'intensa attività, interrotta appena dalle pause per i pasti e dal riposo notturno. Nei primi tempi, sol-tanto Torm e mio padre mi fecero da insegnanti, ma quando cominciai a masticare un po' la lingua goreana, anche altri, fra cui un paio originari della Terra, spesero con me un po' del loro tempo.
L'inglese di Torm era molto buono, seppure deformato dall'accento go-reano, dato che il giovanotto conosceva la mia lingua solo per averla stu-diata. Il fatto che Torm si fosse preso la briga d'imparare una lingua pres-soché inutile su quel pianeta, testimoniava di qual genere fosse la sua men-talità. Dichiarava di trovarla più ricca ed espressiva del goreano, di parlarla volentieri, e tanto gli era bastato per volersene impadronire.
Il programma scolastico che mi veniva imposto era meticoloso e pesan-te. Oltre allo studio dovevo applicarmi con la massima buona volontà negli esercizi fisici, ovvero nell'uso pratico delle armi bianche. Non mancavano le ore dedicate all'apprendimento degli usi e dei costumi della popolazione, né lo studio di piccoli strumenti di misura diffusi su Gor così come sulla Terra sono diffuse le bilance e le calcolatrici tascabili.
Buona parte degli oggetti che mi vedevo attorno erano di stampo medie-vale, ma non mancavano apparecchi che mi risultarono stupefacenti, come ad esempio il traduttore istantaneo, nel quale potevano essere immagazzi-nati vari linguaggi del pianeta e che ne forniva subito la traduzione vocale.
La lingua principale era il goreano comune, che tuttavia aveva a seconda delle regioni accenti e dialetti a non finire. C'erano però altre lingue del tutto diverse, spesso dal suono incredibile, ed un paio avevano tonalità e acuti che non credetti umanamente possibile imitare; sembravano piuttosto linguaggi di uccelli o di animali feroci. L'uso del traduttore istantaneo era semplice: bastava parlare in un microfono, e dall'altra parte usciva una sequela di parole nel linguaggio su cui si era regolato l'interruttore, a frasi separate. Oltre all'inglese, il suo piccolo cervello elettronico conteneva quattro delle principali lingue terrestri, praticamente complete, e una pro-nuncia passabile era sufficiente per ottenere la traduzione esatta. Sulla Ter-ra un gingillo di quel genere mi avrebbe fruttato miliardi.
«Sei un ignorante, non scordarlo mai. Ma chi sa d'essere un ignorante cammina sul sentiero della verità,» mi ripeteva Torm ad ogni mio più pic-colo passo in avanti. «Però una sana ignoranza non è tutto nella vita. Ad esempio, per uscire dal Sentiero della Verità, occorre essere anche un im-becille. Eppure, come faresti ad accorgerti che cammini su quella via se non provi ad uscirne sperimentalmente ogni tanto? Questo significa dun-que che la vera sapienza si raggiunge solo se si è davvero ignoranti e per di più imbecilli. E ora avanti con la lezione: usi e costumi di Gor. Che cos'è un Santuario? Quali sono le regole del Duello d'Onore? Quali diritti sono legati alla pietra della Casa? Tre minuti per tre risposte!»
Bene o male, cercando di utilizzare al meglio quel periodo d'istruzione forzata, il mio lavoro d'apprendimento andò avanti. Torm accoglieva i miei errori con strida di raccapriccio quand'erano di poco conto, e davanti a quelli più gravi esibiva un silenzio drammatico. Talvolta raccoglieva un libro, scelto fra quelli che non riscuotevano la sua approvazione, e me lo tirava addosso; talaltra minacciava di fare lo sciopero della fame finché non avessi studiato a fondo qualche argomento importante. Era deciso a far sì che io approfittassi nel miglior modo della sua emerita opera d'insegnan-te.
Cosa singolare, lo studio della religione era ridotto ai minimi termini, e ciò mi sembrò far parte di un'accorta politica tesa ad incoraggiare lo svi-luppo di arcani timori verso i Re-Sacerdoti. Torm rifiutava di parlarmene, borbottando che di quelle insulsaggini se ne occupavano gli Adepti.
Venni a sapere che costoro, organizzati in una casta abbastanza circo-scritta e chiusa, non incoraggiavano affatto la gente a partecipare alle loro cerimonie sacrificali. Mi vennero date delle preghiere da imparare a me-moria, ma non ne compresi molto perché erano in goreano antico; si tratta-
va della lingua usata in liturgia dagli Adepti, e pochi si davano la pena di studiarla. Con mio divertimento scopersi che Torm, sebbene si vantasse d'avere una memoria fenomenale, le aveva del tutto dimenticate ormai da anni. Non c'era troppo da meravigliarsene: non avevo bisogno di venire su Gor per sapere che fra letterati e religiosi la simpatia è sempre stata abba-stanza tiepida. E la Casta degli Scrivani abbondava di scettici inveterati.
La morale veniva invece insegnata da maestri che non avevano niente a che vedere con la Casta degli Adepti. Spettava infatti alla Casta dei Legi-slatori occuparsene, ed essi tramandavano quella in uso fin dai tempi più antichi senza tollerare modifiche o perfezionamenti. Fui istruito da uno di loro specialmente riguardo alle leggi che regolavano i comportamenti all'interno della Casta dei Guerrieri.
«Una cosa che non troverai scritta su questi scartafacci te la dirò adesso, amico,» stabilì Torm. «Tu non sarai mai accettato nella Casta degli Scri-vani.»
«Non credo sia questo che mio padre vuole. Dà troppa importanza agli allenamenti con le armi.»
«Non prendertela,» ghignò lui. «Qualche volta si scrive meglio con la spada.»
Il codice d'onore dei guerrieri era, in linea generale, improntato su com-portamenti di rude cavalleria, sulla fedeltà alla Pietra della Casa e sul ri-spetto verso il Capocasta chiamato Guerriero Anziano. Era un insieme di regole severe che obbligavano ad una galanteria e ad un senso dell'onore di stampo apprezzabile. Decisi che avrei potuto adeguarmi ad esso senza dif-ficoltà.
Mi stavano impartendo quella che veniva chiamata la Seconda Educa-zione, cosiddetta perché oltrepassava la conoscenza di stampo popolaresco basata sulle credenze empiriche, e quindi avrei dovuto giungere al livello dei letterati di Gor e dei membri delle Caste Alte, che avevano un atteg-giamento mentale più sofisticato.
Nelle Caste Basse il popolo riceveva invece la Terza Educazione, e fra le due c'erano delle differenze sorprendenti; ad esempio, la gente comune era incoraggiata a credere che il mondo fosse piatto come una pizza e che il sole gli girasse attorno spinto dal potere dei Re-Sacerdoti. Simili cose poco edificanti mi rafforzarono nella convinzione che si cercava di tener sotto controllo le Caste Basse con l'universale metodo di mantenerle nell'igno-ranza.
D'altra parte le Caste Alte, ovvero quelle dei Guerrieri, degli Ingegneri,
degli Scrivani, degli Adepti e dei Medici, ricevevano un'istruzione quanto più completa possibile. Per ciò che riguardava argomenti astronomici, si dava per scontato che un individuo abbastanza abile da poter restare in queste caste, capisse anche da solo realtà come la rotondità del pianeta, magari deducendola dall'osservazione dei tre piccoli satelliti di Gor.
Domandarsi come potevano coesistere nozioni elementari di carattere tanto diverso era inutile: avevo davanti a me una società in cui quel siste-ma veniva reso funzionante. Volendo andare per il sottile avrei potuto far notare che sulla Terra, nell'era della televisione, i governanti avevano e-scogitato ben altri metodi che l'aperta menzogna per tener sotto controllo le masse; ma Gor non era un mondo dove la sottigliezza fosse troppo ne-cessaria.
C'era da riflettere che, se i popolani ricevevano la Terza Educazione e gli intellettuali la Seconda, doveva esisterne una Prima. Le mie domande in merito però non ricevevano mai risposte molto soddisfacenti, anche se mio padre non tralasciava di erudirmi sui fatti sociali.
«La base politica ed economica della società,» mi spiegò una sera, «è la città-stato. Che siano ostili o amichevoli con le comunità adiacenti, le cit-tà-stato controllano tutta la terra che riescono ad annettersi ed espandono i loro confini il più possibile. Le zone improduttive, poco interessanti, im-possibili da governare oppure troppo vicine ai confini di un'altra città, ven-gono considerate terra di nessuno.»
«Com'è strutturato il sistema di governo all'interno delle città?», doman-dai.
«I governanti sono i membri più eminenti delle Caste Alte, gli Anziani di ciascuna di esse, oppure i loro delegati.»
«Non c'è qualche rappresentante del popolo?»
«Stai scherzando?», disse lui, fissandomi come se fossi ubriaco. «Nella Terza Educazione, sulla quale si fonda la mentalità del popolino, esistono dozzine di favole e di storie vere che testimoniano come ciò sarebbe inde-siderabile, dimostrando che, quando i membri delle Caste Basse vanno al potere, accadono disastri d'ogni sorta.»
Io cercai di mantenere una faccia impassibile e poco interessata, e lui continuò con un sorriso paziente:
«La struttura interna di ogni Casta è relativamente immobile, in quanto fondata sulla trasmissione ereditaria della posizione sociale, però non è congelata. Ad esempio, se durante il periodo scolastico un ragazzino mo-stra attitudini diverse da quelle del padre, ha modo di cambiare Casta. Inol-
tre, se la sua abilità personale è scarsa per qualunque Casta, egli decadrà fino ai livelli più bassi di essa senza che il suo rango di nascita influisca troppo su questo destino.»
«Capisco,» dissi, annuendo pensosamente.
«Dalle Caste Alte di una città, dunque, vengono eletti un Ordinatore e un Consiglio, che restano in carica per un periodo fisso. In tempo di crisi o di conflitto si nomina invece un Capo di Guerra, il quale instaura una sorta di legge marziale e non si ritira fino al termine dell'emergenza.»
«Ed è lui stesso a determinare quando e se la crisi è finita?», chiesi, scet-tico.
«Normalmente sì. La questione è definita nel codice di comportamento della Casta dei Guerrieri, che non consente azioni disoneste e disonorevo-li.»
«Ma, nel caso che un Capo di Guerra non intenda lasciare il potere?», insistei, immaginando che anche su Gor l'ambizione facesse mettere da parte qualsiasi principio etico e morale.
«Chi lo facesse sarebbe abbandonato dai suoi seguaci. La tradizione vuole che egli venga lasciato da solo nel suo palazzo, e che il popolo infe-rocito entri ad ucciderlo.»
Cercai d'immaginare una scena di quel genere, ma mi sembrava una so-luzione troppo semplicistica per avvenimenti che nella realtà umana sono sempre assai complessi.
Mio padre dovette leggermi il dubbio in faccia, perché riprese: «Certo, può capitare che per un motivo o per l'altro le cose vadano diversamente. Ad esempio, il Capo di Guerra che riesce a formarsi un seguito di fedelis-simi, o di uomini prezzolati che lo sostengono, può debellare ogni opposi-zione e restare al potere. In questo caso egli assume la carica di Tiranno, e regna finché non viene deposto con la forza.» Nel dire questo la sua faccia si scurì al punto da farmi pensare che egli stesso conosceva un uomo simi-le. Molto lentamente ripeté: «Sì, finché qualcuno non lo spodesta con la forza.»
Le mie lezioni proseguirono interminabili, alleviate soltanto dalla pre-senza di Torm che me le rendeva meno faticose da sopportare.
Il pianeta Gor è ancora meno sferico della Terra. L'emisfero meridionale è più largo e panciuto di quello settentrionale, come una pera, e la sua ro-tazione avviene al contrario rispetto a quella del nostro pianeta. All'atto pratico la cosa non fa alcuna differenza, dato che la direzione da cui sorge
il sole viene chiamata lo stesso Levante o Culla dell'Alba. Il giorno ha pressappoco la stessa durata di quello terrestre, ed anche l'inclinazione del suo asse è quasi simile, cosa che lo fornisce di stagioni equivalenti. Ha due calotte glaciali, due fasce temperate, ed una zona equatoriale torrida. Con mia sorpresa scoprii che sulle carte geografiche figurava una quantità di zone bianche, ancora inesplorate. Ma dovetti ugualmente studiare a memo-ria innumerevoli nomi di fiumi, laghi, mari, catene montuose, valli e peni-sole sparse ovunque.
L'economia era fondata sull'agricoltura, il piccolo commercio e l'artigia-nato. Il prodotto più coltivato era una varietà di grano chiamata Sa-Tarna, ovvero Sorella della Vita. Abbastanza singolare, il nome con cui veniva indicato il cibo in generale era Sa-tassna, cioè Madre della Vita, e nomi consimili avevano i prodotti considerati indispensabili alla vita umana. La caccia era ritenuta una nobile attività, un po' come accadeva anche sulla Terra nell'epoca pre-industriale. Tutto ciò mi portava a supporre che il Vi-aggio dell'Acquisto fosse un'istituzione che durava da molti millenni, gra-zie alla quale Gor era stato popolato, anche se non riuscivo a trovare molta somiglianza fra il goreano e i linguaggi terrestri a me noti.
Avevo tuttavia troppo poco tempo per speculare e pormi domande di quel genere. L'addestramento che mi veniva imposto sembrava imperniato sull'idea di trasformarmi in un goreano in poche settimane oppure di farmi crepare nel tentativo. Devo riconoscere che provavo una cupa soddisfazio-ne nel vedermi trascinato ai miei limiti di resistenza, quasi che stessi u-scendo da un bozzolo fra gemiti e fatiche per trasformarmi in una persona più capace e padrona di sé. Ma cosa mi si voleva far diventare? Ancora non lo immaginavo. Le persone di cui andavo assimilando lo scibile appar-tenevano per lo più alla Casta degli Scrivani e a quella dei Guerrieri. I pri-mi includevano tutti coloro che avevano mansioni da impiegato, oltre al personale scolastico, e fra essi c'erano enormi differenze di posizione so-ciale. Dei secondi ancora non ero in grado di sapere molto.
Incontrai poche donne in quei giorni. Anch'esse erano inquadrate nelle rispettive Caste, potevano scendere o salire di rango a seconda delle loro capacità e cambiare casta allorché si sposavano, ma per esse gli usi varia-vano da città a città. Tutti gli individui che vedevo in giro sembravano discendere da antenati terrestri dei quali recavano ancora evidenti le carat-teristiche razziali e, a quanto avevo capito, il Viaggio dell'Acquisto si limi-tava a trasferire su Gor gente che poi veniva lasciata a se stessa, come a-nimali in una riserva da ripopolare.
Dalle facce che osservavo a Città delle Torri, ero giunto alla conclusione che i principali ceppi etnici erano stati due: quello nordico e quello medi-terraneo, quest'ultimo enormemente più diffuso e comprendente tutti i tipi razziali centro europei e del mediterraneo orientale. Non vedevo in città neppure un negro o un asiatico. I vari ceppi s'erano però incrociati e me-scolati fra loro per millenni, ed il goreano medio era scuro di capelli, robu-sto e abbastanza alto.
La lingua non conservava tracce terrestri o quasi, ed ero felice quando m'imbattevo in parole che derivavano chiaramente da una radice greca, latina o celtica. Se fossi stato un linguista, credo che avrei trovato affinità meno evidenti nella pronuncia e struttura dei suoni, individuando forse origini europee in parole ormai molto mutate. Venni fra l'altro a sapere che la discendenza terrestre era una nozione facente parte della Seconda Istru-zione, ovvero che si preferiva tenerne all'oscuro la massa degli appartenen-ti alle Caste Basse.
«Perché questa faccenda non viene divulgata fra la gente?», chiesi un giorno a Torm.
«Non è evidente?», borbottò lui, distratto.
«Per nulla. Che ragioni ci sono?»
Torm socchiuse gli occhi e mi fissò per un minuto buono, come riflet-tendoci su. Infine schioccò le dita.
«In verità ti dico che hai ragione tu, amico: le ragioni non sono affatto evidenti, almeno così a prima vista. Hai colto nel segno.»
«E allora cosa mi dici?»
«Dico di continuare questa lezione. Tu grufoli nella cultura disordinata-mente, come un maiale dentro un mucchio di spazzatura. E i maiali troppo avidi possono spaccarsi i denti sopra un sasso,» fu tutta la risposta che mi diede.
Più andavo avanti e più mi convincevo che il sistema delle caste rispon-deva perfettamente agli scopi dei suoi creatori. Instaurava un ordine socia-le, premiava i meritevoli, puniva gli incapaci e i ribelli. Un signorotto me-dievale l'avrebbe approvato di corsa, dato che corrispondeva in pieno alle idee di quegli aristocratici rinascimentali che amavano definirsi di larghe vedute e amici del popolo... a patto che il popolo sapesse stare al suo po-sto.
A malincuore dovevo riconoscere che in effetti funzionava, e forse pro-prio perché era tanto rigido e duro. Ma un particolare non mi andava e non mi sarebbe mai andato giù, perché su Gor il sistema della schiavitù era
legalizzato. Due sole categorie esulavano dall'ingranaggio delle caste, a parte i Re-Sacerdoti, e queste erano i fuorilegge e gli schiavi. Chi rifiutava questo stato di fatto veniva a sua volta automaticamente catalogato fra i fuorilegge, e per costoro era in vigore l'immediata pena di morte mediante impalamento.
La ragazza bionda che avevo visto il mio primo giorno era una schiava, e quel suo collare metallico ne stabiliva con drammatica chiarezza la posi-zione. Anche il vestito che indossava era della foggia riservata agli schiavi, una sorta di uniforme i cui particolari secondari variavano da luogo a luo-go. A città delle Torri il colore e il disegno del tessuto, insieme a un carat-teristico marchio ben evidente, indicavano a chi apparteneva lo schiavo. Non l'avevo più rivista da allora, né avevo fatto domande su di lei, ma ogni tanto ripensavo al suo visetto attraente.
Fin dall'inizio m'ero accorto che la schiavitù era un argomento di con-versazione che non veniva quasi mai sfiorato, come se si considerasse di cattivo gusto parlarne, e decisi così che per levarmi certe curiosità sarebbe stato più saggio aspettare. Comunque seppi che ad uno schiavo anche colto era interdetto il compito d'istruire in alcun modo un uomo libero, perché ciò avrebbe instaurato un vincolo indecente fra un superiore ed un inferio-re. Sarebbe stato disonorevole per chiunque ritrovarsi moralmente in debi-to verso uno schiavo.
Il mio istinto mi suggeriva di fare tutto ciò che avrei potuto per combat-tere la schiavitù, e faticavo a tener la bocca chiusa sulla faccenda. Ne ac-cennai una volta sola e di sfuggita a mio padre, ed egli borbottò distratta-mente che il destino degli schiavi avrebbe potuto essere molto peggiore di quel che era, mormorando qualcosa che non compresi bene circa un luogo chiamato Torre Schiava.
Come un fulmine d'acciaio, inatteso e improvviso, la punta della lancia mi saettò così vicina da sfiorarmi trasversalmente il petto. Avevo fatto appena in tempo a ruotare su me stesso. Un attimo dopo il bronzo acumi-nato si conficcò nell'albero alle mie spalle, con tale violenza che, se m'a-vesse colpito, ne sarei stato passato da parte a parte. Imprecai, abbassando gli occhi sulla mia tunica: il tessuto era stato squarciato, e sotto di esso un taglio lungo e sottile mi segnava il torace come una linea rossa.
«Niente male!», commentò l'uomo che aveva scagliato l'arma. «È stato ben svelto a scansarsi, il giovanotto!»
Io feci una smorfia, detestando a morte quel sistema di controllare la mia
prontezza di riflessi. L'individuo la cui teoria era quella di far sì che io stessi sempre all'erta, era il mio istruttore d'armi, ed anch'egli aveva norme Tarl. Per rispetto o per distinguerlo da me, dovevo però rivolgermi a lui chiamandolo Olde Tarl, nome che anche in inglese avrebbe significato Tarl il Vecchio, sebbene vecchio non fosse affatto.
Fisicamente era un pezzo di marcantonio biondo e barbuto che avrebbe fatto la sua impressionante figura anche sulla prua di un drakkar vichingo, e nel camminare piazzava a terra i suoi piedi massicci come se il suolo su cui procedeva gli appartenesse per diritto divino. Tutta la sua struttura cor-porea e perfino l'espressione della faccia rivelava in lui il guerriero, un individuo capace di opporsi a chiunque altro e di maneggiare con mortale perizia ogni tipo d'arma bianca.
Accortosi che io ero decisamente robusto, non aveva mai avuto la mano delicata con me e, nei corpo a corpo con pugnale e spada, ce la metteva tutta per ridurmi a mal partito. Fin dal primo incontro con lui avevo però avuto la chiara impressione che fosse un coraggioso, per nulla arrogante malgrado la sua formidabile capacità d'uccidere. Rispettava l'onore altrui come fosse il suo, ed era di modi assai franchi. L'avevo trovato subito sim-patico.
Come ho già accennato, mi venivano imposte molte ore al giorno di ad-destramento con le armi, in particolare con la lancia e la spada. La forza di gravità inferiore mi consentiva di brandire le lance più pesanti con buona facilità, e di scagliarle con potenza e precisione più che soddisfacenti. A venti metri di distanza non mancavo mai di centrare bersagli larghi quanto una scodella, e con una forza tale da sfondare lo spessore di un normale scudo come fosse cartone. Quello che mi dava fastidio negli allenamenti era il dover maneggiare la spada anche con la sinistra, e all'occorrenza di lanciarla con la stessa mano.
«A che diavolo serve tutto questo?», obiettai una volta. «Vuoi che cerchi di diventare mancino?»
«Taci, pivello. Cosa credi che faresti se in battaglia ti ferissero al braccio destro? Getteresti la spada a terra e di lasceresti ammazzare come un inet-to?», rispose Olde Tarl.
«Ripiegherei su una posizione strategica più sicura,» borbottai. «A meno di non esser ferito anche alle gambe.»
«Fuggire?», tuonò lui, roteando gli occhi scandalizzato. «Un guerriero non fugge. Un guerriero resta dov'è, e si batte!»
Torm, che sedeva nei pressi col naso affondato fra le pagine di un mano-
scritto, alzò gli occhi e fissò il biondo colosso con faccia inespressiva.
«Un guerriero che abbia sale in zucca detesta l'idea di farsi macellare stupidamente,» sentenziò.
Olde Tarl sollevò la lancia e lo gratificò di un'occhiata così infuocata che il giovanotto preferì cambiare aria, uscendo dal campo di addestramento. Io presi un paio di altre lance e le tirai contro il bersaglio usando solo la mano sinistra, poi andai a raccoglierle e tornai nella posizione iniziale a passo di corsa. Dagli allenamenti uscivo sempre sfiatato, ma stavo facendo progressi che sorprendevano perfino me stesso. Oscuramente presagivo che le mie possibilità di sopravvivenza su Gor sarebbero dipese molto dal-l'uso delle armi.
La spada goreana era una specie di gladio lungo poco più d'un braccio, e stringerne l'impugnatura mi provocava una sensazione non spiacevole. Ad Oxford avevo fatto un po' di scherma alla sciabola, e nel college del New Hampshire qualche volta ero sceso in palestra a maneggiare il fioretto ma, dove mi trovavo adesso, l'uso della spada non era soltanto uno sport. M'impegnai ad adoperarla anche con la sinistra, però i risultati non furono soddisfacenti. In compenso, quando la stringevo nella destra, sapevo ren-dermi pericoloso.
Durante i nostri duelli alla spada, Olde Tarl non scherzava di certo, e né io né lui indossavamo corpetti protettivi. La sua lama mi arrivava pesan-temente addosso da tutte le direzioni, facendo scintille contro la mia, e tutti i giorni mi apriva nuovi tagli nel vestito quando non addirittura nella car-ne. Ogni volta i fendenti giunti a toccarmi erano accompagnati da un riso-nante «Oplà, colpito!» che mi irritava ancor più delle ferite e delle ammac-cature.
Verso la fine dell'allenamento divenni però abbastanza esperto da evitare quelle lievi umiliazioni, ed imparai a tenere alla larga la sua spada con rabbiose mosse difensive opponendo il furore lucido all'abilità del mio insegnante. Un pomeriggio approfittai istintivamente d'un suo passo falso squarciandogli sul petto una tunica nuova, con un fendente calcolato che tuttavia gli aprì un taglio sullo sterno. Avergli spillato il sangue mi di-spiacque, però gridai lo stesso: «Oplà, colpito!»
Olde Tarl si fece una grande risata e poi annuì più volte, abbracciandomi con affetto. Esser stato battuto da un suo allievo, e per di più con una mos-sa che aveva penato per farmi imparare, lo soddisfaceva. Quella sera stessa dichiarò che mi considerava tecnicamente grezzo ma comunque forte, e che il mio modo di duellare gli piaceva. Aveva l'aria orgogliosa d'un padre
che abbia insegnato al figlio come cavarsi d'impaccio nella vita.
M'ero addestrato bene anche all'uso dello scudo, arte che secondo Olde Tarl consisteva più nel deviare i colpi che nel fermarli, dato che ciò sbilan-ciava l'avversario e consentiva una maggior rapidità nel colpo di rimessa. L'altro solo riparo consentito ai guerrieri era l'elmo, e quando domandai per qual motivo non si usavano armature di nessun genere, venni a sapere che lo si doveva ancora una volta ad un espresso divieto dei Re-Sacerdoti.
All'apparenza costoro gradivano molto che gli scontri si risolvessero sempre con qualche cadavere, in base alla teoria che i più deboli dovevano lasciarci la pelle. Una sorta di selezione fondata sulla sopravvivenza del più forte, insomma. Giusto o sbagliato che fosse, mi stavo rendendo conto che i Re-Sacerdoti sapevano bene che genere di società volevano su Gor, e non usavano certo il guanto di velluto per ottenere i loro scopi.
In battaglia, la teoria della sopravvivenza del più forte veniva però inva-lidata dalla presenza degli archi e delle balestre, e tuttavia non si creda che anche ciò non fosse calcolato. L'arco era infatti considerato una variante che permetteva la contemporanea sopravvivenza del più abile. A mio avvi-so, una quantità di precauzioni e regole di questo genere rivelava che i Re-Sacerdoti temevano soprattutto azioni tese a minacciare la loro sicurezza. C'era da escludere che fondassero la loro stessa esistenza su regole di vita similari, combattendo in qualche modo fra loro e selezionando la propria razza con criteri così drastici.
Non divenni un Robin Hood con l'arco e la balestra, anzi mi fu dato ap-pena modo di provarne l'uso. Olde Tarl pareva considerarle armi poco a-datte per un guerriero forte, e le disprezzava. Essendo poco d'accordo con le sue baldanzose visioni dell'onore, cercai di fare un po' di pratica per con-to mio, ma per ottenere risultati apprezzabili sarebbe occorso assai più tempo di quel che avevo.
Venne infine il giorno in cui qualcosa nel modo di fare dei miei inse-gnanti cambiò impercettibilmente, e compresi che il mio periodo d'istru-zione volgeva al termine. Mi studiavano di sottecchi come se si chiedesse-ro se ero pronto, ma per cosa mi desideravano pronto era un fatto che non riuscivo ad immaginare. La lingua l'avevo imparata molto meglio di quan-to si rendevano conto quelli che si occupavano di me, al punto che spesso li sorprendevo a mormorare commenti sulla mia persona, erroneamente convinti che non capissi ancora bene il dialetto stretto di Città delle Torri. Invece parlavo il goreano, pensavo in goreano e perfino sognavo in quella lingua, il che mi stupiva.
Cominciai a sospettare che in me ci fosse un oscuro impulso a dimenti-care il mio passato terrestre. Queste riflessioni mi disturbavano, tanto che a volte andavo a prendere uno dei libri di mio padre scritti in inglese e me lo leggevo ad alta voce, per il solo piacere di risentire il suono della mia lin-gua. Ciò malgrado ero soddisfatto di poter capire alla perfezione gli abitan-ti di Gor, senza contare che quel linguaggio sembrava fatto apposta per imprecare ed abbondava di succosi insulti, cosa questa che mi divertiva.
Un pomeriggio, Olde Tarl entrò nella mia camera portando con sé un at-trezzo metallico lungo circa un metro, fornito di un'impugnatura in plastica e d'un cinturino per assicurarlo al polso. All'estremità dell'impugnatura c'era un interruttore di tipo non dissimile da quello di una torcia elettrica. Vidi che il mio istruttore ne aveva un altro identico appeso alla cintura.
«No, non si tratta di un'arma come potresti pensare,» disse, mostrando-melo. «Anche se può capitare di usarlo per difendersi.»
«Di che si tratta?»
«Questo è un pungolo per grifoni, ragazzo.»
Premette l'interruttore e tutta la parte metallica dell'oggetto s'illuminò di una vivissima luce gialla. Quando lo depose sul tavolo constatai che la superficie di legno non sembrava scaldarsi neppure a quel contatto. Olde Tarl lo spese e poi me lo porse. Mentre me lo metteva in mano però schiacciò ancora l'interruttore, ed all'istante fu come se qualcuno mi avesse ficcato il braccio in un truogolo di metallo fuso al calor bianco. Mandai un grido strozzato e vacillai indietro, convinto d'esser stato colpito mortal-mente. Subito dopo il dolore accecante scomparve, ma la scossa m'aveva ridotto ad un groviglio di nervi sconvolti e ci misi qualche minuto per ri-prendermi.
«Che tu possa schiattare!», ansimai. «Sono scherzi da farsi, questi? Se avessi il cuore debole ci sarei rimasto secco!»
Lui rise, per nulla preoccupato. «È solo per insegnarti che non si può scherzare con un pungolo da grifoni. Non è roba per bambini. Se ti sfiori una gamba nel bel mezzo di un'azione sei spacciato. Mi spiego? Avanti, provalo tu.»
Con una smorfia presi l'oggetto e mi allacciai la cinghia al polso, poi lo feci funzionare un paio di volte facendo la massima attenzione a come lo maneggiavo.
Olde Tarl mi disse di tenerlo al polso e uscì, facendomi segno di seguir-lo. Gli tenni dietro su per le scale della torre cilindrica e, dopo una dozzina di piani, uscimmo sul tetto attraverso una botola. Quel giorno il vento era
così forte che accostarsi al bordo privo di balaustra sarebbe stata un'impru-denza, e dovetti piantar bene i piedi al suolo. Granelli di polvere portati fin lì dalla pianura mi grandinavano sulla faccia, costringendomi a tenere le palpebre socchiuse.
Mentre mi chiedevo che razza di novità l'istruttore d'armi stesse medi-tando, lui si portò un fischietto alla bocca e vi soffiò dentro con tutta la forza dei suoi polmoni.
Fino ad allora non avevo mai visto un grifone in carne ed ossa, salvo al-cuni così lontani nel cielo da sembrare comuni rapaci, e conoscevo quei grandi uccelli solo per averli visti nelle illustrazioni dei libri e sui dipinti. Ne avevo studiato le tecniche di allevamento, la cura e la nutrizione, ed il modo di equipaggiarli coi finimenti. Se m'ero chiesto a cosa mi sarebbero servite quelle nozioni, ora stavo per impararlo.
I Goreani sono convinti che l'arte di condurre il grifone nel cielo, caval-cando sulla sua schiena, sia possibile solo a chi possiede una sorta di parti-colare sesto senso ed impossibile a chi non lo ha. Affermano che dominar-lo non è una cosa che s'impara, ma che invece viene ad istaurarsi fra l'uo-mo e la sua bestia come un rapporto empatico, il quale appare fra loro su-bito oppure mai più. Chi ha questo dono diventa un buon grifoniere, men-tre in caso contrario non lo si diviene neppure dopo mille anni di tentativi. Si dice che il grifone stesso sia in grado di cogliere quel «quid» nell'uomo, e che forzarlo a legarsi all'individuo sbagliato lo renda così ostile che so-vente lo assale all'istante e lo dilania a morte.
Mentre mi riparavo gli occhi dal pulviscolo, nell'aria risuonò un rumore schioccante, come quello di un enorme tappo che schizzasse via dalla bot-tiglia, ed un'ombra calò su di noi nascondendo buona parte del cielo. Alzai gli occhi e vidi due zampe i cui artigli sembravano lunghe spade d'acciaio: il grifone chiamato dal mio compagno incombeva sulla torre ad ali distese, quasi immobile nell'aria in quel suo lento e poderoso abbassarsi seguito alla picchiata e, nel vederne le dimensioni stupefacenti, ansimai e mi feci pallido.
«Stai alla larga dalle ali!», gridò Olde Tarl seccamente.
Non avevo bisogno del suo avvertimento, perché avevo già fatto d'istinto un paio di salti. A parte l'aspetto spaventoso del rapace, una di quelle e-normi vele pennute avrebbe potuto sbattermi via dal tetto della torre come uno scoiattolo.
Il grifone atterrò sullo spazio circolare, chiuse le ali e ci fissò con occhi neri come tizzoni d'inferno e larghi quanto un piatto. Malgrado la sua mo-
le, l'uccello era sorprendentemente leggero di movimenti, e sapevo che era dotato di una forza fisica superiore ad ogni immaginazione. Sulla Terra vi sono volatili di grosse dimensioni che trovano più facile prendere il volo gettandosi da un luogo elevato, ed altri che non riescono a sollevarsi dal suolo quando il loro peso è aumentato a causa di un pasto eccessivo. Il grifone di Gor ha invece una tale energia che riesce a prendere il volo, ap-pesantito dal suo grifoniere, con estrema facilità, anche se in ciò ha l'aiuto della minor gravità del pianeta.
Di piumaggio questi rapaci variano considerevolmente, e vengono sele-zionati con opportuni incroci sia per ottenere colori di bell'effetto che un alto grado d'intelligenza. In lingua goreana il loro nome significa Fratelli del Vento. Grifoni interamente neri sono preferibili ad altri per i voli not-turni sul territorio nemico, mentre quelli bianchi vengono usati nelle re-gioni nevose, a scopo mimetico. Olde Tarl affermò con sussiego che i veri guerrieri prediligono quelli multicolori, spregiando di nascondersi agli avversati con stratagemmi da donnette. Il tipo più comune di grifone ha un piumaggio di colore verde scuro e uniforme. Il suo aspetto è più o meno quello del suo piccolo omonimo terrestre, a parte una cresta di cartilagine sul cranio e le maggiori proporzioni dell'apertura alare rispetto al corpo.
I grifoni di Gor, da considerarsi tecnicamente animali semidomestici, sono dotati di una certa malizia che talvolta li rende temibili e si nutrono esclusivamente di carne. Non si è mai dato il caso di uno che abbia attacca-to il suo grifoniere. Non hanno paura di nulla eccetto che della scossa d'e-nergia dello sprone, uno stimolo a cui sono addestrati ad ubbidire fin da piccoli ad opera degli allevatori che s'occupano di loro.
I membri della Casta degli Allevatori sono degli specialisti che pongono molta cura nel farli arrivare all'età adulta ben ammaestrati ed affidabili, vista la loro potenziale pericolosità. Non sono gli unici animali montati dai guerrieri di Gor. Per gli spostamenti al suolo viene allevato un corpulento sauriano, il Tharlarion, che però è da considerarsi un ripiego per chi non può disporre di un grifone. Nella Città delle Torri non ne vidi neppure uno, ma seppi che più a meridione erano comunissimi, essendo animali poco adattabili alle zone fredde.
Olde Tarl non aveva perso tempo a montare sul suo grifone, dopo che il colossale volatile era atterrato sul tetto. Per farlo aveva usato la breve sca-letta, formata da cinque pioli di robusto cuoio, che penzolava a sinistra della sella e, una volta in groppa alla bestia, l'aveva ritirata. Quando fu ben saldo in arcioni, mi gettò un oggetto, che presi al volo ancor prima d'aver
capito cos'era. Si trattava di un fischietto uguale a quello che aveva usato poco prima, un richiamo da grifone, e fu soltanto allora che compresi le sue intenzioni: mi stava assegnando un rapace appena uscito dalle mani dei domatori.
Quel gesto equivaleva alla consegna delle chiavi di un'automobile nuo-va. Ogni fischietto emette infatti una nota, o una combinazione di note, caratteristica e riconoscibile fra migliaia d'altre, ed è il segnale a cui il gri-fone viene addestrato ad ubbidire con prontezza. Sapevo che fino a quel momento era stato usato soltanto dall'allevatore che gli aveva dato da mangiare, e che non aveva ancora permesso che nessun altro gli salisse in groppa.
Mi sentii chiudere la gola da un'immediata sensazione di panico e, per la seconda volta in vita mia dopo quella notte sulle White Mountains, provai la voglia di scappare ciecamente. Fui però sbalordito nell'accorgermi che una sola riflessione automatica era bastata a farmi ritrovare subito la cal-ma: «Se devo crepare - cosa che prima o poi accadrà - tanto vale che crepi in piedi.»
A quel pensiero dovetti sorridere fra me. Me l'ero già ripetuto più volte duellando alla spada con Olde Tarl, nei momenti in cui quasi mi convince-vo che quel grosso figlio d'un cane stava davvero cercando d'ammazzarmi. Era uno dei proverbi più diffusi fra i membri della Casta dei Guerrieri, ed evidentemente l'avevo assimilato. Mi portai il fischietto alle labbra e da esso scaturì un suono fatto di due note, così acute da sfiorare la soglia del-l'udibilità.
Quasi all'istante, oltre gli alberi e le torri più meridionali della città, un fantastico oggetto volante si sollevò dal suolo e si portò in quota con pode-rosi colpi d'ala. Era un grifone ancora più grosso del primo, che in breve ci individuò e fu sopra di noi. Fischiai ancora per confermargli che non stava sbagliando direzione, ma mi stavo domandando se mi avrebbe lasciato salire in sella oppure m'avrebbe rifiutato, attaccandomi a morte come si diceva che l'istinto li portasse a fare in queste situazioni.
Le grandi ali sbatterono quando rallentò la velocità, compiendo alcuni circoli intorno alla cima della torre, poi gli artigli micidiali strisciarono rumorosamente sul tetto lasciandovi lunghi solchi mentre atterrava contro la forza del vento. Era senza dubbio uno di quelli che venivano chiamati grifoni da guerra: enorme, feroce, ed armato di zampe che avrebbero potu-to scardinare la torretta d'un carro armato come una scatola di latta. Le sue penne erano color carbone.
Sollevò al cielo il suo rostro spaventoso e stridette, sbattendo alcune vol-te le ali, quindi girò la testa crestata a fissarmi con occhi di giaietto che scintillavano di luce nera. Il suo becco era semiaperto, e dentro di esso guizzava una lingua rossa lunga più d'un braccio. La cosa che accadde subito dopo fu così sconvolgente che potei reagire solo con un gemito strozzato perché, stridendo in preda ad una furia terribile, il rapace spalan-cò l'enorme becco e mi si precipitò addosso.
«Lo sprone! Usa lo sprone o sei morto!», feci appena in tempo a sentire che urlava Olde Tarl. La sua voce era incrinata dall'orrore.
IL GRIFONE
«Dovrò forse gettarmi giù dalla finestra, per trovare un po' di vera e de-finitiva pace?», singhiozzò drammaticamente Torm, levando al cielo le braccia magre.
Il giovanotto, il più improbabile membro della Casta degli Scrivani che vi fosse nella Città delle Torri, si copri il volto con un lembo della sua scalcinata tonaca blu come a ripudiare la vista della mia persona e del resto del mondo. I suoi slavati occhi celesti, piazzati ai lati di un secco naso ad uncino, emersero di nuovo dal riparo di stoffa per fissarmi con disperazio-ne.
«Cos'ho fatto per meritarmi questo? Sentiamo, cos'ho fatto di male?», mi accusò. «Perché proprio io, un emerito idiota, devo vedermi afflitto da altri idioti ancora peggiori? Forse lassù, nel luogo da cui tu sei piombato sulle mie spalle, si crede che io sia alla ricerca di oziosi stratagemmi per passare il tempo? Guarda qui, e là: carrettate di libri, di fascicoli, di pergamene, di appunti, e tutti ancora in attesa che io disponga d'un minuto libero per stu-diarmeli!»
«Non mi hanno detto che eri tanto occupato,» mi scusai.
«Non glielo hanno detto!», gemette lui. «Ho tanto da fare, che sono stato costretto a diventare sonnambulo per lavorare anche quando dormo. Guar-dati attorno. Sono trascorsi due anni dal giorno in cui mi feci prestare una scopa per spazzare, ma quel diabolico oggetto andò subito smarrito nella confusione, e da allora neppure uomini arditi e capaci sono riusciti a ritro-varlo più!»
Il locale era certamente il più caotico e disordinato che avessi mai visto su Gor. Sulla grande e malandata tavola di legno erano affastellate pile di fogli, boccette d'inchiostro in malcerto equilibrio, penne, carte assorbenti, matite smozzicate, libri rilegati a mano, tagliacarte, e un assortimento d'oggetti vari che ne occupavano il piano fino all'ultimo millimetro. Il pa-vimento era ingombro di scartafacci e manoscritti dai fogli sciolti, ammuc-chiati presso le pareti, mentre sugli scaffali di legno era già stato poggiato o compresso tutto ciò che era possibile farvi stare, compresi dei capi di biancheria sporca. Il letto in un angolo aveva l'aspetto di una cuccia per cani, e le lenzuola non dovevano esser state cambiate da mesi, sebbene dal colore avrei detto che ogni tanto le rivoltava, tutti i suoi oggetti personali erano seppelliti e dispersi in cumuli di ciarpame da cui le pile dei libri pol-verosi emergevano come torri di guardia.
Una delle due finestre della stanza aveva una forma stupidamente irrego-lare, forma venuta a crearsi dopo che Torni, irritato per la scarsa luce che ne entrava, l'aveva allargata a colpi di piccone raffazzonandone alla meglio l'intelaiatura. Sotto il tavolo, e così pericolosamente vicino ad esso da ab-brustolirne la vernice, un grosso braciere fungeva da impianto di riscalda-
mento. Bruciature annerite su tutte e quattro le gambe testimoniavano che i principi d'incendio erano una seccatura a cui ormai Torm sapeva porre rimedio.
Il giovanotto affermava che lì dentro d'inverno si piangeva per il freddo e d'estate non si dormiva per il caldo, mentre inconvenienti che andavano dalle cimici agli attacchi di malinconia gli insidiavano atrocemente le notti senza differenza di stagione. Adesso eravamo in inverno, il raffreddore era la battaglia che stava combattendo, e strisce umide su entrambe le maniche della sua tonaca da Scrivano rivelavano che possedeva un sistema rapido per pulirsi il naso senza fazzoletto. Le lamentele sul prezzo del carbone e le imprecazioni contro il freddo rappresentavano in quel periodo i tre quar-ti dei suoi discorsi più accalorati.
Fisicamente era magro, allampanato, e ricordava un fenicottero che ogni tanto sbattesse le ali squittendo contro le nequizie del mondo in cui era costretto a vivere. Sulla sua tonaca blu si potevano individuare, da qualsia-si parte la si osservasse, almeno una dozzina di scuciture alcune delle quali semiaggiustate da mani a dir poco inette. Uno dei suoi sandali di cuoio era stato raffazzonato con una legatura di spago, ed un capo di questo spago egli se lo trascinava dietro bestemmiando ogni volta che vi inciampava.
Nelle poche settimane trascorse dal mio arrivo su Gor, avevo avuto mo-do di constatare che quella gente metteva una cura meticolosa nell'abbi-gliamento, sfiorando talvolta la ricercatezza e l'eleganza più sofisticata, e teneva moltissimo alla propria apparenza esteriore ma, a quanto pareva, le inclinazioni di Torm viaggiavano su binari suoi personali. Di vanità come la pulizia e l'ordine nel vestire, venivano da lui rimproverati tutti coloro che, come me, avevano la sfortuna di dover sopportare le sue battute acide.
E tuttavia, malgrado l'estrema eccentricità e la petulanza esasperante, Torm era dotato di qualità che ero costretto ad ammirare: un genuino senso dell'umorismo, l'assoluta mancanza di ipocrisia, una gentilezza innata, l'a-more per le cose belle, ed il fatto che sapeva vedere gli aspetti buoni perfi-no delle persone meno meritevoli.
Amava teneramente i suoi libri maltenuti, ed amava gli autori che li ave-vano scritti secoli addietro. Apparteneva a quella ridotta schiera di cinici che sanno storcere la bocca di fronte al mondo intero e tuttavia poteva farsi venire le lacrime agli occhi osservando dei bambinetti che giocavano su un prato. E se il suo sguardo non riusciva a vedere gli strappi della veste che indossava, poteva però smarrirsi nel verde di una campagna incolta scor-gendovi bellezze che per altri non esistevano neppure. Per incredibile che
possa sembrare, non avevo mai dubitato che fosse proprio lui il miglior insegnante a Città delle Torri, come mio padre aveva dichiarato.
Con aria pigra e disgustata, il giovanotto frugò tra i mucchi di libri, met-tendosi carponi per farsi largo fra essi, e ne pescò fuori un volumetto dalla copertina metallica chiusa con un fermaglio. L'aprì all'altezza di un segna-libro e sedette accanto a me, mostrandomi la pagina. Era un abbecedario.
«Al-ka», esclamò, battendo l'indice su una delle figure disegnate a ma-no.
«Ael-kae,» ripetei io, sbagliando completamente la pronuncia.
Torm mi fissò ostentando un'enorme pazienza. «No, testone d'un anglo-sassone dalla bocca storta. Al-ka, al-ka!»
«El-kaa,» dissi, con uno sforzo.
Torm ridacchiò, scosse il capo e si voltò a recuperare un calamaio dal caos del tavolo. «Ecco qua,» mi informò. «Guardati un al-ka al naturale, amico, così potrai sapere cosa ti vuoterò sul capo, sull'anima di mio nonno, se sbaglierai ancora a pronunciare il suo dannatissimo nome!»
Le settimane seguenti mi videro immerso in un'intensa attività, interrotta appena dalle pause per i pasti e dal riposo notturno. Nei primi tempi, sol-tanto Torm e mio padre mi fecero da insegnanti, ma quando cominciai a masticare un po' la lingua goreana, anche altri, fra cui un paio originari della Terra, spesero con me un po' del loro tempo.
L'inglese di Torm era molto buono, seppure deformato dall'accento go-reano, dato che il giovanotto conosceva la mia lingua solo per averla stu-diata. Il fatto che Torm si fosse preso la briga d'imparare una lingua pres-soché inutile su quel pianeta, testimoniava di qual genere fosse la sua men-talità. Dichiarava di trovarla più ricca ed espressiva del goreano, di parlarla volentieri, e tanto gli era bastato per volersene impadronire.
Il programma scolastico che mi veniva imposto era meticoloso e pesan-te. Oltre allo studio dovevo applicarmi con la massima buona volontà negli esercizi fisici, ovvero nell'uso pratico delle armi bianche. Non mancavano le ore dedicate all'apprendimento degli usi e dei costumi della popolazione, né lo studio di piccoli strumenti di misura diffusi su Gor così come sulla Terra sono diffuse le bilance e le calcolatrici tascabili.
Buona parte degli oggetti che mi vedevo attorno erano di stampo medie-vale, ma non mancavano apparecchi che mi risultarono stupefacenti, come ad esempio il traduttore istantaneo, nel quale potevano essere immagazzi-nati vari linguaggi del pianeta e che ne forniva subito la traduzione vocale.
La lingua principale era il goreano comune, che tuttavia aveva a seconda delle regioni accenti e dialetti a non finire. C'erano però altre lingue del tutto diverse, spesso dal suono incredibile, ed un paio avevano tonalità e acuti che non credetti umanamente possibile imitare; sembravano piuttosto linguaggi di uccelli o di animali feroci. L'uso del traduttore istantaneo era semplice: bastava parlare in un microfono, e dall'altra parte usciva una sequela di parole nel linguaggio su cui si era regolato l'interruttore, a frasi separate. Oltre all'inglese, il suo piccolo cervello elettronico conteneva quattro delle principali lingue terrestri, praticamente complete, e una pro-nuncia passabile era sufficiente per ottenere la traduzione esatta. Sulla Ter-ra un gingillo di quel genere mi avrebbe fruttato miliardi.
«Sei un ignorante, non scordarlo mai. Ma chi sa d'essere un ignorante cammina sul sentiero della verità,» mi ripeteva Torm ad ogni mio più pic-colo passo in avanti. «Però una sana ignoranza non è tutto nella vita. Ad esempio, per uscire dal Sentiero della Verità, occorre essere anche un im-becille. Eppure, come faresti ad accorgerti che cammini su quella via se non provi ad uscirne sperimentalmente ogni tanto? Questo significa dun-que che la vera sapienza si raggiunge solo se si è davvero ignoranti e per di più imbecilli. E ora avanti con la lezione: usi e costumi di Gor. Che cos'è un Santuario? Quali sono le regole del Duello d'Onore? Quali diritti sono legati alla pietra della Casa? Tre minuti per tre risposte!»
Bene o male, cercando di utilizzare al meglio quel periodo d'istruzione forzata, il mio lavoro d'apprendimento andò avanti. Torm accoglieva i miei errori con strida di raccapriccio quand'erano di poco conto, e davanti a quelli più gravi esibiva un silenzio drammatico. Talvolta raccoglieva un libro, scelto fra quelli che non riscuotevano la sua approvazione, e me lo tirava addosso; talaltra minacciava di fare lo sciopero della fame finché non avessi studiato a fondo qualche argomento importante. Era deciso a far sì che io approfittassi nel miglior modo della sua emerita opera d'insegnan-te.
Cosa singolare, lo studio della religione era ridotto ai minimi termini, e ciò mi sembrò far parte di un'accorta politica tesa ad incoraggiare lo svi-luppo di arcani timori verso i Re-Sacerdoti. Torm rifiutava di parlarmene, borbottando che di quelle insulsaggini se ne occupavano gli Adepti.
Venni a sapere che costoro, organizzati in una casta abbastanza circo-scritta e chiusa, non incoraggiavano affatto la gente a partecipare alle loro cerimonie sacrificali. Mi vennero date delle preghiere da imparare a me-moria, ma non ne compresi molto perché erano in goreano antico; si tratta-
va della lingua usata in liturgia dagli Adepti, e pochi si davano la pena di studiarla. Con mio divertimento scopersi che Torm, sebbene si vantasse d'avere una memoria fenomenale, le aveva del tutto dimenticate ormai da anni. Non c'era troppo da meravigliarsene: non avevo bisogno di venire su Gor per sapere che fra letterati e religiosi la simpatia è sempre stata abba-stanza tiepida. E la Casta degli Scrivani abbondava di scettici inveterati.
La morale veniva invece insegnata da maestri che non avevano niente a che vedere con la Casta degli Adepti. Spettava infatti alla Casta dei Legi-slatori occuparsene, ed essi tramandavano quella in uso fin dai tempi più antichi senza tollerare modifiche o perfezionamenti. Fui istruito da uno di loro specialmente riguardo alle leggi che regolavano i comportamenti all'interno della Casta dei Guerrieri.
«Una cosa che non troverai scritta su questi scartafacci te la dirò adesso, amico,» stabilì Torm. «Tu non sarai mai accettato nella Casta degli Scri-vani.»
«Non credo sia questo che mio padre vuole. Dà troppa importanza agli allenamenti con le armi.»
«Non prendertela,» ghignò lui. «Qualche volta si scrive meglio con la spada.»
Il codice d'onore dei guerrieri era, in linea generale, improntato su com-portamenti di rude cavalleria, sulla fedeltà alla Pietra della Casa e sul ri-spetto verso il Capocasta chiamato Guerriero Anziano. Era un insieme di regole severe che obbligavano ad una galanteria e ad un senso dell'onore di stampo apprezzabile. Decisi che avrei potuto adeguarmi ad esso senza dif-ficoltà.
Mi stavano impartendo quella che veniva chiamata la Seconda Educa-zione, cosiddetta perché oltrepassava la conoscenza di stampo popolaresco basata sulle credenze empiriche, e quindi avrei dovuto giungere al livello dei letterati di Gor e dei membri delle Caste Alte, che avevano un atteg-giamento mentale più sofisticato.
Nelle Caste Basse il popolo riceveva invece la Terza Educazione, e fra le due c'erano delle differenze sorprendenti; ad esempio, la gente comune era incoraggiata a credere che il mondo fosse piatto come una pizza e che il sole gli girasse attorno spinto dal potere dei Re-Sacerdoti. Simili cose poco edificanti mi rafforzarono nella convinzione che si cercava di tener sotto controllo le Caste Basse con l'universale metodo di mantenerle nell'igno-ranza.
D'altra parte le Caste Alte, ovvero quelle dei Guerrieri, degli Ingegneri,
degli Scrivani, degli Adepti e dei Medici, ricevevano un'istruzione quanto più completa possibile. Per ciò che riguardava argomenti astronomici, si dava per scontato che un individuo abbastanza abile da poter restare in queste caste, capisse anche da solo realtà come la rotondità del pianeta, magari deducendola dall'osservazione dei tre piccoli satelliti di Gor.
Domandarsi come potevano coesistere nozioni elementari di carattere tanto diverso era inutile: avevo davanti a me una società in cui quel siste-ma veniva reso funzionante. Volendo andare per il sottile avrei potuto far notare che sulla Terra, nell'era della televisione, i governanti avevano e-scogitato ben altri metodi che l'aperta menzogna per tener sotto controllo le masse; ma Gor non era un mondo dove la sottigliezza fosse troppo ne-cessaria.
C'era da riflettere che, se i popolani ricevevano la Terza Educazione e gli intellettuali la Seconda, doveva esisterne una Prima. Le mie domande in merito però non ricevevano mai risposte molto soddisfacenti, anche se mio padre non tralasciava di erudirmi sui fatti sociali.
«La base politica ed economica della società,» mi spiegò una sera, «è la città-stato. Che siano ostili o amichevoli con le comunità adiacenti, le cit-tà-stato controllano tutta la terra che riescono ad annettersi ed espandono i loro confini il più possibile. Le zone improduttive, poco interessanti, im-possibili da governare oppure troppo vicine ai confini di un'altra città, ven-gono considerate terra di nessuno.»
«Com'è strutturato il sistema di governo all'interno delle città?», doman-dai.
«I governanti sono i membri più eminenti delle Caste Alte, gli Anziani di ciascuna di esse, oppure i loro delegati.»
«Non c'è qualche rappresentante del popolo?»
«Stai scherzando?», disse lui, fissandomi come se fossi ubriaco. «Nella Terza Educazione, sulla quale si fonda la mentalità del popolino, esistono dozzine di favole e di storie vere che testimoniano come ciò sarebbe inde-siderabile, dimostrando che, quando i membri delle Caste Basse vanno al potere, accadono disastri d'ogni sorta.»
Io cercai di mantenere una faccia impassibile e poco interessata, e lui continuò con un sorriso paziente:
«La struttura interna di ogni Casta è relativamente immobile, in quanto fondata sulla trasmissione ereditaria della posizione sociale, però non è congelata. Ad esempio, se durante il periodo scolastico un ragazzino mo-stra attitudini diverse da quelle del padre, ha modo di cambiare Casta. Inol-
tre, se la sua abilità personale è scarsa per qualunque Casta, egli decadrà fino ai livelli più bassi di essa senza che il suo rango di nascita influisca troppo su questo destino.»
«Capisco,» dissi, annuendo pensosamente.
«Dalle Caste Alte di una città, dunque, vengono eletti un Ordinatore e un Consiglio, che restano in carica per un periodo fisso. In tempo di crisi o di conflitto si nomina invece un Capo di Guerra, il quale instaura una sorta di legge marziale e non si ritira fino al termine dell'emergenza.»
«Ed è lui stesso a determinare quando e se la crisi è finita?», chiesi, scet-tico.
«Normalmente sì. La questione è definita nel codice di comportamento della Casta dei Guerrieri, che non consente azioni disoneste e disonorevo-li.»
«Ma, nel caso che un Capo di Guerra non intenda lasciare il potere?», insistei, immaginando che anche su Gor l'ambizione facesse mettere da parte qualsiasi principio etico e morale.
«Chi lo facesse sarebbe abbandonato dai suoi seguaci. La tradizione vuole che egli venga lasciato da solo nel suo palazzo, e che il popolo infe-rocito entri ad ucciderlo.»
Cercai d'immaginare una scena di quel genere, ma mi sembrava una so-luzione troppo semplicistica per avvenimenti che nella realtà umana sono sempre assai complessi.
Mio padre dovette leggermi il dubbio in faccia, perché riprese: «Certo, può capitare che per un motivo o per l'altro le cose vadano diversamente. Ad esempio, il Capo di Guerra che riesce a formarsi un seguito di fedelis-simi, o di uomini prezzolati che lo sostengono, può debellare ogni opposi-zione e restare al potere. In questo caso egli assume la carica di Tiranno, e regna finché non viene deposto con la forza.» Nel dire questo la sua faccia si scurì al punto da farmi pensare che egli stesso conosceva un uomo simi-le. Molto lentamente ripeté: «Sì, finché qualcuno non lo spodesta con la forza.»
Le mie lezioni proseguirono interminabili, alleviate soltanto dalla pre-senza di Torm che me le rendeva meno faticose da sopportare.
Il pianeta Gor è ancora meno sferico della Terra. L'emisfero meridionale è più largo e panciuto di quello settentrionale, come una pera, e la sua ro-tazione avviene al contrario rispetto a quella del nostro pianeta. All'atto pratico la cosa non fa alcuna differenza, dato che la direzione da cui sorge
il sole viene chiamata lo stesso Levante o Culla dell'Alba. Il giorno ha pressappoco la stessa durata di quello terrestre, ed anche l'inclinazione del suo asse è quasi simile, cosa che lo fornisce di stagioni equivalenti. Ha due calotte glaciali, due fasce temperate, ed una zona equatoriale torrida. Con mia sorpresa scoprii che sulle carte geografiche figurava una quantità di zone bianche, ancora inesplorate. Ma dovetti ugualmente studiare a memo-ria innumerevoli nomi di fiumi, laghi, mari, catene montuose, valli e peni-sole sparse ovunque.
L'economia era fondata sull'agricoltura, il piccolo commercio e l'artigia-nato. Il prodotto più coltivato era una varietà di grano chiamata Sa-Tarna, ovvero Sorella della Vita. Abbastanza singolare, il nome con cui veniva indicato il cibo in generale era Sa-tassna, cioè Madre della Vita, e nomi consimili avevano i prodotti considerati indispensabili alla vita umana. La caccia era ritenuta una nobile attività, un po' come accadeva anche sulla Terra nell'epoca pre-industriale. Tutto ciò mi portava a supporre che il Vi-aggio dell'Acquisto fosse un'istituzione che durava da molti millenni, gra-zie alla quale Gor era stato popolato, anche se non riuscivo a trovare molta somiglianza fra il goreano e i linguaggi terrestri a me noti.
Avevo tuttavia troppo poco tempo per speculare e pormi domande di quel genere. L'addestramento che mi veniva imposto sembrava imperniato sull'idea di trasformarmi in un goreano in poche settimane oppure di farmi crepare nel tentativo. Devo riconoscere che provavo una cupa soddisfazio-ne nel vedermi trascinato ai miei limiti di resistenza, quasi che stessi u-scendo da un bozzolo fra gemiti e fatiche per trasformarmi in una persona più capace e padrona di sé. Ma cosa mi si voleva far diventare? Ancora non lo immaginavo. Le persone di cui andavo assimilando lo scibile appar-tenevano per lo più alla Casta degli Scrivani e a quella dei Guerrieri. I pri-mi includevano tutti coloro che avevano mansioni da impiegato, oltre al personale scolastico, e fra essi c'erano enormi differenze di posizione so-ciale. Dei secondi ancora non ero in grado di sapere molto.
Incontrai poche donne in quei giorni. Anch'esse erano inquadrate nelle rispettive Caste, potevano scendere o salire di rango a seconda delle loro capacità e cambiare casta allorché si sposavano, ma per esse gli usi varia-vano da città a città. Tutti gli individui che vedevo in giro sembravano discendere da antenati terrestri dei quali recavano ancora evidenti le carat-teristiche razziali e, a quanto avevo capito, il Viaggio dell'Acquisto si limi-tava a trasferire su Gor gente che poi veniva lasciata a se stessa, come a-nimali in una riserva da ripopolare.
Dalle facce che osservavo a Città delle Torri, ero giunto alla conclusione che i principali ceppi etnici erano stati due: quello nordico e quello medi-terraneo, quest'ultimo enormemente più diffuso e comprendente tutti i tipi razziali centro europei e del mediterraneo orientale. Non vedevo in città neppure un negro o un asiatico. I vari ceppi s'erano però incrociati e me-scolati fra loro per millenni, ed il goreano medio era scuro di capelli, robu-sto e abbastanza alto.
La lingua non conservava tracce terrestri o quasi, ed ero felice quando m'imbattevo in parole che derivavano chiaramente da una radice greca, latina o celtica. Se fossi stato un linguista, credo che avrei trovato affinità meno evidenti nella pronuncia e struttura dei suoni, individuando forse origini europee in parole ormai molto mutate. Venni fra l'altro a sapere che la discendenza terrestre era una nozione facente parte della Seconda Istru-zione, ovvero che si preferiva tenerne all'oscuro la massa degli appartenen-ti alle Caste Basse.
«Perché questa faccenda non viene divulgata fra la gente?», chiesi un giorno a Torm.
«Non è evidente?», borbottò lui, distratto.
«Per nulla. Che ragioni ci sono?»
Torm socchiuse gli occhi e mi fissò per un minuto buono, come riflet-tendoci su. Infine schioccò le dita.
«In verità ti dico che hai ragione tu, amico: le ragioni non sono affatto evidenti, almeno così a prima vista. Hai colto nel segno.»
«E allora cosa mi dici?»
«Dico di continuare questa lezione. Tu grufoli nella cultura disordinata-mente, come un maiale dentro un mucchio di spazzatura. E i maiali troppo avidi possono spaccarsi i denti sopra un sasso,» fu tutta la risposta che mi diede.
Più andavo avanti e più mi convincevo che il sistema delle caste rispon-deva perfettamente agli scopi dei suoi creatori. Instaurava un ordine socia-le, premiava i meritevoli, puniva gli incapaci e i ribelli. Un signorotto me-dievale l'avrebbe approvato di corsa, dato che corrispondeva in pieno alle idee di quegli aristocratici rinascimentali che amavano definirsi di larghe vedute e amici del popolo... a patto che il popolo sapesse stare al suo po-sto.
A malincuore dovevo riconoscere che in effetti funzionava, e forse pro-prio perché era tanto rigido e duro. Ma un particolare non mi andava e non mi sarebbe mai andato giù, perché su Gor il sistema della schiavitù era
legalizzato. Due sole categorie esulavano dall'ingranaggio delle caste, a parte i Re-Sacerdoti, e queste erano i fuorilegge e gli schiavi. Chi rifiutava questo stato di fatto veniva a sua volta automaticamente catalogato fra i fuorilegge, e per costoro era in vigore l'immediata pena di morte mediante impalamento.
La ragazza bionda che avevo visto il mio primo giorno era una schiava, e quel suo collare metallico ne stabiliva con drammatica chiarezza la posi-zione. Anche il vestito che indossava era della foggia riservata agli schiavi, una sorta di uniforme i cui particolari secondari variavano da luogo a luo-go. A città delle Torri il colore e il disegno del tessuto, insieme a un carat-teristico marchio ben evidente, indicavano a chi apparteneva lo schiavo. Non l'avevo più rivista da allora, né avevo fatto domande su di lei, ma ogni tanto ripensavo al suo visetto attraente.
Fin dall'inizio m'ero accorto che la schiavitù era un argomento di con-versazione che non veniva quasi mai sfiorato, come se si considerasse di cattivo gusto parlarne, e decisi così che per levarmi certe curiosità sarebbe stato più saggio aspettare. Comunque seppi che ad uno schiavo anche colto era interdetto il compito d'istruire in alcun modo un uomo libero, perché ciò avrebbe instaurato un vincolo indecente fra un superiore ed un inferio-re. Sarebbe stato disonorevole per chiunque ritrovarsi moralmente in debi-to verso uno schiavo.
Il mio istinto mi suggeriva di fare tutto ciò che avrei potuto per combat-tere la schiavitù, e faticavo a tener la bocca chiusa sulla faccenda. Ne ac-cennai una volta sola e di sfuggita a mio padre, ed egli borbottò distratta-mente che il destino degli schiavi avrebbe potuto essere molto peggiore di quel che era, mormorando qualcosa che non compresi bene circa un luogo chiamato Torre Schiava.
Come un fulmine d'acciaio, inatteso e improvviso, la punta della lancia mi saettò così vicina da sfiorarmi trasversalmente il petto. Avevo fatto appena in tempo a ruotare su me stesso. Un attimo dopo il bronzo acumi-nato si conficcò nell'albero alle mie spalle, con tale violenza che, se m'a-vesse colpito, ne sarei stato passato da parte a parte. Imprecai, abbassando gli occhi sulla mia tunica: il tessuto era stato squarciato, e sotto di esso un taglio lungo e sottile mi segnava il torace come una linea rossa.
«Niente male!», commentò l'uomo che aveva scagliato l'arma. «È stato ben svelto a scansarsi, il giovanotto!»
Io feci una smorfia, detestando a morte quel sistema di controllare la mia
prontezza di riflessi. L'individuo la cui teoria era quella di far sì che io stessi sempre all'erta, era il mio istruttore d'armi, ed anch'egli aveva norme Tarl. Per rispetto o per distinguerlo da me, dovevo però rivolgermi a lui chiamandolo Olde Tarl, nome che anche in inglese avrebbe significato Tarl il Vecchio, sebbene vecchio non fosse affatto.
Fisicamente era un pezzo di marcantonio biondo e barbuto che avrebbe fatto la sua impressionante figura anche sulla prua di un drakkar vichingo, e nel camminare piazzava a terra i suoi piedi massicci come se il suolo su cui procedeva gli appartenesse per diritto divino. Tutta la sua struttura cor-porea e perfino l'espressione della faccia rivelava in lui il guerriero, un individuo capace di opporsi a chiunque altro e di maneggiare con mortale perizia ogni tipo d'arma bianca.
Accortosi che io ero decisamente robusto, non aveva mai avuto la mano delicata con me e, nei corpo a corpo con pugnale e spada, ce la metteva tutta per ridurmi a mal partito. Fin dal primo incontro con lui avevo però avuto la chiara impressione che fosse un coraggioso, per nulla arrogante malgrado la sua formidabile capacità d'uccidere. Rispettava l'onore altrui come fosse il suo, ed era di modi assai franchi. L'avevo trovato subito sim-patico.
Come ho già accennato, mi venivano imposte molte ore al giorno di ad-destramento con le armi, in particolare con la lancia e la spada. La forza di gravità inferiore mi consentiva di brandire le lance più pesanti con buona facilità, e di scagliarle con potenza e precisione più che soddisfacenti. A venti metri di distanza non mancavo mai di centrare bersagli larghi quanto una scodella, e con una forza tale da sfondare lo spessore di un normale scudo come fosse cartone. Quello che mi dava fastidio negli allenamenti era il dover maneggiare la spada anche con la sinistra, e all'occorrenza di lanciarla con la stessa mano.
«A che diavolo serve tutto questo?», obiettai una volta. «Vuoi che cerchi di diventare mancino?»
«Taci, pivello. Cosa credi che faresti se in battaglia ti ferissero al braccio destro? Getteresti la spada a terra e di lasceresti ammazzare come un inet-to?», rispose Olde Tarl.
«Ripiegherei su una posizione strategica più sicura,» borbottai. «A meno di non esser ferito anche alle gambe.»
«Fuggire?», tuonò lui, roteando gli occhi scandalizzato. «Un guerriero non fugge. Un guerriero resta dov'è, e si batte!»
Torm, che sedeva nei pressi col naso affondato fra le pagine di un mano-
scritto, alzò gli occhi e fissò il biondo colosso con faccia inespressiva.
«Un guerriero che abbia sale in zucca detesta l'idea di farsi macellare stupidamente,» sentenziò.
Olde Tarl sollevò la lancia e lo gratificò di un'occhiata così infuocata che il giovanotto preferì cambiare aria, uscendo dal campo di addestramento. Io presi un paio di altre lance e le tirai contro il bersaglio usando solo la mano sinistra, poi andai a raccoglierle e tornai nella posizione iniziale a passo di corsa. Dagli allenamenti uscivo sempre sfiatato, ma stavo facendo progressi che sorprendevano perfino me stesso. Oscuramente presagivo che le mie possibilità di sopravvivenza su Gor sarebbero dipese molto dal-l'uso delle armi.
La spada goreana era una specie di gladio lungo poco più d'un braccio, e stringerne l'impugnatura mi provocava una sensazione non spiacevole. Ad Oxford avevo fatto un po' di scherma alla sciabola, e nel college del New Hampshire qualche volta ero sceso in palestra a maneggiare il fioretto ma, dove mi trovavo adesso, l'uso della spada non era soltanto uno sport. M'impegnai ad adoperarla anche con la sinistra, però i risultati non furono soddisfacenti. In compenso, quando la stringevo nella destra, sapevo ren-dermi pericoloso.
Durante i nostri duelli alla spada, Olde Tarl non scherzava di certo, e né io né lui indossavamo corpetti protettivi. La sua lama mi arrivava pesan-temente addosso da tutte le direzioni, facendo scintille contro la mia, e tutti i giorni mi apriva nuovi tagli nel vestito quando non addirittura nella car-ne. Ogni volta i fendenti giunti a toccarmi erano accompagnati da un riso-nante «Oplà, colpito!» che mi irritava ancor più delle ferite e delle ammac-cature.
Verso la fine dell'allenamento divenni però abbastanza esperto da evitare quelle lievi umiliazioni, ed imparai a tenere alla larga la sua spada con rabbiose mosse difensive opponendo il furore lucido all'abilità del mio insegnante. Un pomeriggio approfittai istintivamente d'un suo passo falso squarciandogli sul petto una tunica nuova, con un fendente calcolato che tuttavia gli aprì un taglio sullo sterno. Avergli spillato il sangue mi di-spiacque, però gridai lo stesso: «Oplà, colpito!»
Olde Tarl si fece una grande risata e poi annuì più volte, abbracciandomi con affetto. Esser stato battuto da un suo allievo, e per di più con una mos-sa che aveva penato per farmi imparare, lo soddisfaceva. Quella sera stessa dichiarò che mi considerava tecnicamente grezzo ma comunque forte, e che il mio modo di duellare gli piaceva. Aveva l'aria orgogliosa d'un padre
che abbia insegnato al figlio come cavarsi d'impaccio nella vita.
M'ero addestrato bene anche all'uso dello scudo, arte che secondo Olde Tarl consisteva più nel deviare i colpi che nel fermarli, dato che ciò sbilan-ciava l'avversario e consentiva una maggior rapidità nel colpo di rimessa. L'altro solo riparo consentito ai guerrieri era l'elmo, e quando domandai per qual motivo non si usavano armature di nessun genere, venni a sapere che lo si doveva ancora una volta ad un espresso divieto dei Re-Sacerdoti.
All'apparenza costoro gradivano molto che gli scontri si risolvessero sempre con qualche cadavere, in base alla teoria che i più deboli dovevano lasciarci la pelle. Una sorta di selezione fondata sulla sopravvivenza del più forte, insomma. Giusto o sbagliato che fosse, mi stavo rendendo conto che i Re-Sacerdoti sapevano bene che genere di società volevano su Gor, e non usavano certo il guanto di velluto per ottenere i loro scopi.
In battaglia, la teoria della sopravvivenza del più forte veniva però inva-lidata dalla presenza degli archi e delle balestre, e tuttavia non si creda che anche ciò non fosse calcolato. L'arco era infatti considerato una variante che permetteva la contemporanea sopravvivenza del più abile. A mio avvi-so, una quantità di precauzioni e regole di questo genere rivelava che i Re-Sacerdoti temevano soprattutto azioni tese a minacciare la loro sicurezza. C'era da escludere che fondassero la loro stessa esistenza su regole di vita similari, combattendo in qualche modo fra loro e selezionando la propria razza con criteri così drastici.
Non divenni un Robin Hood con l'arco e la balestra, anzi mi fu dato ap-pena modo di provarne l'uso. Olde Tarl pareva considerarle armi poco a-datte per un guerriero forte, e le disprezzava. Essendo poco d'accordo con le sue baldanzose visioni dell'onore, cercai di fare un po' di pratica per con-to mio, ma per ottenere risultati apprezzabili sarebbe occorso assai più tempo di quel che avevo.
Venne infine il giorno in cui qualcosa nel modo di fare dei miei inse-gnanti cambiò impercettibilmente, e compresi che il mio periodo d'istru-zione volgeva al termine. Mi studiavano di sottecchi come se si chiedesse-ro se ero pronto, ma per cosa mi desideravano pronto era un fatto che non riuscivo ad immaginare. La lingua l'avevo imparata molto meglio di quan-to si rendevano conto quelli che si occupavano di me, al punto che spesso li sorprendevo a mormorare commenti sulla mia persona, erroneamente convinti che non capissi ancora bene il dialetto stretto di Città delle Torri. Invece parlavo il goreano, pensavo in goreano e perfino sognavo in quella lingua, il che mi stupiva.
Cominciai a sospettare che in me ci fosse un oscuro impulso a dimenti-care il mio passato terrestre. Queste riflessioni mi disturbavano, tanto che a volte andavo a prendere uno dei libri di mio padre scritti in inglese e me lo leggevo ad alta voce, per il solo piacere di risentire il suono della mia lin-gua. Ciò malgrado ero soddisfatto di poter capire alla perfezione gli abitan-ti di Gor, senza contare che quel linguaggio sembrava fatto apposta per imprecare ed abbondava di succosi insulti, cosa questa che mi divertiva.
Un pomeriggio, Olde Tarl entrò nella mia camera portando con sé un at-trezzo metallico lungo circa un metro, fornito di un'impugnatura in plastica e d'un cinturino per assicurarlo al polso. All'estremità dell'impugnatura c'era un interruttore di tipo non dissimile da quello di una torcia elettrica. Vidi che il mio istruttore ne aveva un altro identico appeso alla cintura.
«No, non si tratta di un'arma come potresti pensare,» disse, mostrando-melo. «Anche se può capitare di usarlo per difendersi.»
«Di che si tratta?»
«Questo è un pungolo per grifoni, ragazzo.»
Premette l'interruttore e tutta la parte metallica dell'oggetto s'illuminò di una vivissima luce gialla. Quando lo depose sul tavolo constatai che la superficie di legno non sembrava scaldarsi neppure a quel contatto. Olde Tarl lo spese e poi me lo porse. Mentre me lo metteva in mano però schiacciò ancora l'interruttore, ed all'istante fu come se qualcuno mi avesse ficcato il braccio in un truogolo di metallo fuso al calor bianco. Mandai un grido strozzato e vacillai indietro, convinto d'esser stato colpito mortal-mente. Subito dopo il dolore accecante scomparve, ma la scossa m'aveva ridotto ad un groviglio di nervi sconvolti e ci misi qualche minuto per ri-prendermi.
«Che tu possa schiattare!», ansimai. «Sono scherzi da farsi, questi? Se avessi il cuore debole ci sarei rimasto secco!»
Lui rise, per nulla preoccupato. «È solo per insegnarti che non si può scherzare con un pungolo da grifoni. Non è roba per bambini. Se ti sfiori una gamba nel bel mezzo di un'azione sei spacciato. Mi spiego? Avanti, provalo tu.»
Con una smorfia presi l'oggetto e mi allacciai la cinghia al polso, poi lo feci funzionare un paio di volte facendo la massima attenzione a come lo maneggiavo.
Olde Tarl mi disse di tenerlo al polso e uscì, facendomi segno di seguir-lo. Gli tenni dietro su per le scale della torre cilindrica e, dopo una dozzina di piani, uscimmo sul tetto attraverso una botola. Quel giorno il vento era
così forte che accostarsi al bordo privo di balaustra sarebbe stata un'impru-denza, e dovetti piantar bene i piedi al suolo. Granelli di polvere portati fin lì dalla pianura mi grandinavano sulla faccia, costringendomi a tenere le palpebre socchiuse.
Mentre mi chiedevo che razza di novità l'istruttore d'armi stesse medi-tando, lui si portò un fischietto alla bocca e vi soffiò dentro con tutta la forza dei suoi polmoni.
Fino ad allora non avevo mai visto un grifone in carne ed ossa, salvo al-cuni così lontani nel cielo da sembrare comuni rapaci, e conoscevo quei grandi uccelli solo per averli visti nelle illustrazioni dei libri e sui dipinti. Ne avevo studiato le tecniche di allevamento, la cura e la nutrizione, ed il modo di equipaggiarli coi finimenti. Se m'ero chiesto a cosa mi sarebbero servite quelle nozioni, ora stavo per impararlo.
I Goreani sono convinti che l'arte di condurre il grifone nel cielo, caval-cando sulla sua schiena, sia possibile solo a chi possiede una sorta di parti-colare sesto senso ed impossibile a chi non lo ha. Affermano che dominar-lo non è una cosa che s'impara, ma che invece viene ad istaurarsi fra l'uo-mo e la sua bestia come un rapporto empatico, il quale appare fra loro su-bito oppure mai più. Chi ha questo dono diventa un buon grifoniere, men-tre in caso contrario non lo si diviene neppure dopo mille anni di tentativi. Si dice che il grifone stesso sia in grado di cogliere quel «quid» nell'uomo, e che forzarlo a legarsi all'individuo sbagliato lo renda così ostile che so-vente lo assale all'istante e lo dilania a morte.
Mentre mi riparavo gli occhi dal pulviscolo, nell'aria risuonò un rumore schioccante, come quello di un enorme tappo che schizzasse via dalla bot-tiglia, ed un'ombra calò su di noi nascondendo buona parte del cielo. Alzai gli occhi e vidi due zampe i cui artigli sembravano lunghe spade d'acciaio: il grifone chiamato dal mio compagno incombeva sulla torre ad ali distese, quasi immobile nell'aria in quel suo lento e poderoso abbassarsi seguito alla picchiata e, nel vederne le dimensioni stupefacenti, ansimai e mi feci pallido.
«Stai alla larga dalle ali!», gridò Olde Tarl seccamente.
Non avevo bisogno del suo avvertimento, perché avevo già fatto d'istinto un paio di salti. A parte l'aspetto spaventoso del rapace, una di quelle e-normi vele pennute avrebbe potuto sbattermi via dal tetto della torre come uno scoiattolo.
Il grifone atterrò sullo spazio circolare, chiuse le ali e ci fissò con occhi neri come tizzoni d'inferno e larghi quanto un piatto. Malgrado la sua mo-
le, l'uccello era sorprendentemente leggero di movimenti, e sapevo che era dotato di una forza fisica superiore ad ogni immaginazione. Sulla Terra vi sono volatili di grosse dimensioni che trovano più facile prendere il volo gettandosi da un luogo elevato, ed altri che non riescono a sollevarsi dal suolo quando il loro peso è aumentato a causa di un pasto eccessivo. Il grifone di Gor ha invece una tale energia che riesce a prendere il volo, ap-pesantito dal suo grifoniere, con estrema facilità, anche se in ciò ha l'aiuto della minor gravità del pianeta.
Di piumaggio questi rapaci variano considerevolmente, e vengono sele-zionati con opportuni incroci sia per ottenere colori di bell'effetto che un alto grado d'intelligenza. In lingua goreana il loro nome significa Fratelli del Vento. Grifoni interamente neri sono preferibili ad altri per i voli not-turni sul territorio nemico, mentre quelli bianchi vengono usati nelle re-gioni nevose, a scopo mimetico. Olde Tarl affermò con sussiego che i veri guerrieri prediligono quelli multicolori, spregiando di nascondersi agli avversati con stratagemmi da donnette. Il tipo più comune di grifone ha un piumaggio di colore verde scuro e uniforme. Il suo aspetto è più o meno quello del suo piccolo omonimo terrestre, a parte una cresta di cartilagine sul cranio e le maggiori proporzioni dell'apertura alare rispetto al corpo.
I grifoni di Gor, da considerarsi tecnicamente animali semidomestici, sono dotati di una certa malizia che talvolta li rende temibili e si nutrono esclusivamente di carne. Non si è mai dato il caso di uno che abbia attacca-to il suo grifoniere. Non hanno paura di nulla eccetto che della scossa d'e-nergia dello sprone, uno stimolo a cui sono addestrati ad ubbidire fin da piccoli ad opera degli allevatori che s'occupano di loro.
I membri della Casta degli Allevatori sono degli specialisti che pongono molta cura nel farli arrivare all'età adulta ben ammaestrati ed affidabili, vista la loro potenziale pericolosità. Non sono gli unici animali montati dai guerrieri di Gor. Per gli spostamenti al suolo viene allevato un corpulento sauriano, il Tharlarion, che però è da considerarsi un ripiego per chi non può disporre di un grifone. Nella Città delle Torri non ne vidi neppure uno, ma seppi che più a meridione erano comunissimi, essendo animali poco adattabili alle zone fredde.
Olde Tarl non aveva perso tempo a montare sul suo grifone, dopo che il colossale volatile era atterrato sul tetto. Per farlo aveva usato la breve sca-letta, formata da cinque pioli di robusto cuoio, che penzolava a sinistra della sella e, una volta in groppa alla bestia, l'aveva ritirata. Quando fu ben saldo in arcioni, mi gettò un oggetto, che presi al volo ancor prima d'aver
capito cos'era. Si trattava di un fischietto uguale a quello che aveva usato poco prima, un richiamo da grifone, e fu soltanto allora che compresi le sue intenzioni: mi stava assegnando un rapace appena uscito dalle mani dei domatori.
Quel gesto equivaleva alla consegna delle chiavi di un'automobile nuo-va. Ogni fischietto emette infatti una nota, o una combinazione di note, caratteristica e riconoscibile fra migliaia d'altre, ed è il segnale a cui il gri-fone viene addestrato ad ubbidire con prontezza. Sapevo che fino a quel momento era stato usato soltanto dall'allevatore che gli aveva dato da mangiare, e che non aveva ancora permesso che nessun altro gli salisse in groppa.
Mi sentii chiudere la gola da un'immediata sensazione di panico e, per la seconda volta in vita mia dopo quella notte sulle White Mountains, provai la voglia di scappare ciecamente. Fui però sbalordito nell'accorgermi che una sola riflessione automatica era bastata a farmi ritrovare subito la cal-ma: «Se devo crepare - cosa che prima o poi accadrà - tanto vale che crepi in piedi.»
A quel pensiero dovetti sorridere fra me. Me l'ero già ripetuto più volte duellando alla spada con Olde Tarl, nei momenti in cui quasi mi convince-vo che quel grosso figlio d'un cane stava davvero cercando d'ammazzarmi. Era uno dei proverbi più diffusi fra i membri della Casta dei Guerrieri, ed evidentemente l'avevo assimilato. Mi portai il fischietto alle labbra e da esso scaturì un suono fatto di due note, così acute da sfiorare la soglia del-l'udibilità.
Quasi all'istante, oltre gli alberi e le torri più meridionali della città, un fantastico oggetto volante si sollevò dal suolo e si portò in quota con pode-rosi colpi d'ala. Era un grifone ancora più grosso del primo, che in breve ci individuò e fu sopra di noi. Fischiai ancora per confermargli che non stava sbagliando direzione, ma mi stavo domandando se mi avrebbe lasciato salire in sella oppure m'avrebbe rifiutato, attaccandomi a morte come si diceva che l'istinto li portasse a fare in queste situazioni.
Le grandi ali sbatterono quando rallentò la velocità, compiendo alcuni circoli intorno alla cima della torre, poi gli artigli micidiali strisciarono rumorosamente sul tetto lasciandovi lunghi solchi mentre atterrava contro la forza del vento. Era senza dubbio uno di quelli che venivano chiamati grifoni da guerra: enorme, feroce, ed armato di zampe che avrebbero potu-to scardinare la torretta d'un carro armato come una scatola di latta. Le sue penne erano color carbone.
Sollevò al cielo il suo rostro spaventoso e stridette, sbattendo alcune vol-te le ali, quindi girò la testa crestata a fissarmi con occhi di giaietto che scintillavano di luce nera. Il suo becco era semiaperto, e dentro di esso guizzava una lingua rossa lunga più d'un braccio. La cosa che accadde subito dopo fu così sconvolgente che potei reagire solo con un gemito strozzato perché, stridendo in preda ad una furia terribile, il rapace spalan-cò l'enorme becco e mi si precipitò addosso.
«Lo sprone! Usa lo sprone o sei morto!», feci appena in tempo a sentire che urlava Olde Tarl. La sua voce era incrinata dall'orrore.
giovedì 16 dicembre 2010
martedì 14 dicembre 2010
lunedì 13 dicembre 2010
domenica 12 dicembre 2010
Helen of Troy (Part 7)
quando la fierezza della sottomissione sara in voi...allora piu nulla ci sara da cercare e temere di voi stesse
mercoledì 8 dicembre 2010
martedì 7 dicembre 2010
La Sessione

Davver non mi piace la sessione, pare in testa mia come il gioco.
Siffatta azione non prevede l’accendersi del mio personale fuoco
Più di altro in cuor mio c’è il padroneggiar del tuo io.
Sia il risveglio, il di, o la sera, imperiosa notte impera.
Fosse tutto lì racchiuso un saluto rendendoti l’uso.
Più dell’alito che respiri anche e soprattutto i tuoi sospiri.
Cosi come il fuoco d’ara, bruci sacra la vita amara
Prendo tutto ciò che in te sta, un briciolo un immenso respir d’eternità
giovedì 2 dicembre 2010
..Vi conosco...
...io vi conosco quando vi leggete lieve la malinconia, e la passione del non andare via, finche vi sale da dentro l'anima..... ma io vi conosco vi sono notti in cui vi urlate dentro, e cosi forte che me lo porta il vento, finche vi sale da dentro l'anima..... io vi conosco svegliate e destate il mio sentire, che ad una ad una vi vorrei punire, finche vi sale da dentro l'anima... ma io vi conosco che rasentate il velo della melanconia, e umili e sconfitte non andate via, finche vi sale da dentro l'anima.... io vi conosco.....
REGOLE
REGOLE BASE PER LE KAJIRAE
1. Accogliere e riconoscere tutte le Persone Libere presenti.
2. Bisogna rivolgersi a tutti i Liberi con l'appellativo di Signore o Signora. Se il sesso della Persona Libera non puo' essere determinato dal nome, Signore e' l'appellativo da usare finche' il genere non sara' chiarito.
3. Servi ogni Signore o Signora come se servire bene fosse il motivo della vostra sopravvivenza .... E' cosi'.
4. Sebbene una Persona Libera non possa sempre avere ragione, essa non ha, per definizione, mai torto. Le schiave hanno sempre l'ultima battuta in qualsiasi discussione ... la battuta e' "Si, mio Signore" ...
5. Gelosia e possessività hanno ucciso più schiave che la disobbedienza.
6. Le schiave non possono usare la prima persona per riferirsi a se stesse. "IO" "ME" o "MIO" non esistono nel vocabolario di una schiava.
7. Il vostro collare reca onore al vostro Padrone. Il vostro atteggiamento può renderlo leggero come una piuma o pesante quanto una montagna.
8. Se non ci sono richieste di servigi, usate il tempo per pulire, cucinare, fare pratica delle tecniche di servizio con le vostre sorelline o imparate qualcosa su Gor. Non rimanete oziose.
9. Le schiave non posseggono nulla che non sia stato dato loro dal loro proprietario, incluso il nome. Quello che e' dato può essere tolto. Se vi e' stato affidato da portare un nome, gioielli o della seta, ricordate che queste cose possono essere riprese cosi facilmente quanto sono state date.
10. Il più piccolo capriccio del vostro padrone e' la vostra piu alta legge. E chi infrange la legge e' punito.
11. Il servizio a tutte le Persone Libere va fornito a semplice richiesta.
12. Parlate con le schiave che hanno un collare e servono bene. Esse le vostre insegnanti, le vostre sorelle maggiori. Possono risparmiarvi parecchio dolore. Chiedete a chi ha piu' esperienza ed esso vi sara' da guida.
13. Imparate le corrette tecniche di servizio prima di tentare di applicarle.
1. Accogliere e riconoscere tutte le Persone Libere presenti.
2. Bisogna rivolgersi a tutti i Liberi con l'appellativo di Signore o Signora. Se il sesso della Persona Libera non puo' essere determinato dal nome, Signore e' l'appellativo da usare finche' il genere non sara' chiarito.
3. Servi ogni Signore o Signora come se servire bene fosse il motivo della vostra sopravvivenza .... E' cosi'.
4. Sebbene una Persona Libera non possa sempre avere ragione, essa non ha, per definizione, mai torto. Le schiave hanno sempre l'ultima battuta in qualsiasi discussione ... la battuta e' "Si, mio Signore" ...
5. Gelosia e possessività hanno ucciso più schiave che la disobbedienza.
6. Le schiave non possono usare la prima persona per riferirsi a se stesse. "IO" "ME" o "MIO" non esistono nel vocabolario di una schiava.
7. Il vostro collare reca onore al vostro Padrone. Il vostro atteggiamento può renderlo leggero come una piuma o pesante quanto una montagna.
8. Se non ci sono richieste di servigi, usate il tempo per pulire, cucinare, fare pratica delle tecniche di servizio con le vostre sorelline o imparate qualcosa su Gor. Non rimanete oziose.
9. Le schiave non posseggono nulla che non sia stato dato loro dal loro proprietario, incluso il nome. Quello che e' dato può essere tolto. Se vi e' stato affidato da portare un nome, gioielli o della seta, ricordate che queste cose possono essere riprese cosi facilmente quanto sono state date.
10. Il più piccolo capriccio del vostro padrone e' la vostra piu alta legge. E chi infrange la legge e' punito.
11. Il servizio a tutte le Persone Libere va fornito a semplice richiesta.
12. Parlate con le schiave che hanno un collare e servono bene. Esse le vostre insegnanti, le vostre sorelle maggiori. Possono risparmiarvi parecchio dolore. Chiedete a chi ha piu' esperienza ed esso vi sara' da guida.
13. Imparate le corrette tecniche di servizio prima di tentare di applicarle.
mercoledì 1 dicembre 2010
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