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sabato 13 agosto 2011

creata

faccio fatica a credere che Dio non ami la donna


dissacrante lo sò...

ritorni



sono stato via anche troppo

Capitolo Quarto

Capitolo Quarto




LA MISSIONE









Con un istintivo gesto di difesa alzai le braccia, tanto spaventato da non pensare neppure lontanamente a premere l'interruttore del pungolo. Lo usai invece come un comune bastone, menando una gran botta su quel becco prima che mi strappasse via dal suolo come la ciliegina da una torta. Per due volte il rapace nero avventò il rostro, e per due volte glielo colpii con tutta la mia forza. Se invece del tubo metallico avessi impugnato una spada, il grifone m'avrebbe ucciso, ma invece, nella materia grigia del suo cervello impazzito, dovette balenare il ricordo del dolore associato a quell'attrezzo, perché frenò l'impeto e si ritrasse. La sua furia non era però placata e, dopo una breve esitazione, girò ancora il becco trasversalmente e con uno scatto del collo mirò alle mie gambe.




Stavolta le grida di Olde Tarl riuscirono a penetrarmi nelle orecchie e, pur irrigidito dal terrore, schiacciai l'interruttore facendo accendere la luce gialla a contatto di quel becco affilato. L'effetto fu immediato: appena la violentissima energia gli saettò attraverso la bocca, il grifone inarcò il collo e spalancò le ali con uno stridente ululato di sofferenza. Poi mi girò le spalle e si alzò in volo, così all'improvviso che una delle sue ali mi colse in pieno petto mandandomi a rotolare fin sull'orlo del tetto. Mi ritrovai sulle mani e sulle ginocchia ad un palmo di distanza dal baratro, mentre un po' più in là il volatile di Olde Tarl s'agitava indirizzando grida di rabbia e di sfida verso l'altro uccello. Alzai gli occhi e vidi il grifone compiere rapidi e furiosi giri nel cielo sopra di noi, poi il rapace cambiò direzione e s'involò verso i confini meridionali della città.




Senza sapere perché lo facevo, ma conscio che sarebbe stato uno sbaglio rinunciare al tentativo, recuperai il richiamo e fischiai ancora con forza. Il gigantesco volatile distava circa quattrocento metri da noi quando fu raggiunto dalla nota acuta, e parve ondeggiare nell'aria come squilibrato. Continuò a puntare verso le colline lontane, ma scese di quota e rallentò la velocità. Non era una bestia selvatica, e l'addestramento gli aveva impresso nelle cellule nervose una serie di rilessi automatici a cui pareva non poter disubbidire. D'altra parte, la sua natura gli faceva avvertire il richiamo delle libere ed immense profondità del cielo, e certo provava il desiderio d'allontanarsi da chi lo aveva punito. Malgrado questo, sia lo sprone che il richiamo erano elementi già inseriti nella sua struttura mentale e, quando fischiai di nuovo, la nota lo costrinse a fermarsi ed a compiere un paio di incerti circoli nell'azzurro.




Alla fine, con uno stridio di protesta, il grifone tornò verso la torre. Quando atterrò mi scostai appena, ed esso girò lo sguardo dalla parte opposta come per non vedermi. Dal suo modo di fare compresi che, bene o male, accettava la mia presenza e non mi avrebbe più attaccato.




«Sali insella!», gridò Olde Tarl, soddisfatto.




Mi avvicinai al rapace senza altre esitazioni ed afferrai la scaletta flessibile, montando in arcione. Subito mi allacciai la robusta cintura di cuoio rosso, il cui scopo era di tenermi incollato alla sella anche durante le più spericolate evoluzioni. Davanti a me sporgeva un anello metallico, fissate al quale c'erano sei lunghe redini di diverso colore. Ciascuna di esse era collegata ad un gancio cucito chirurgicamente nella gorgiera, sotto il becco del grifone, e questi erano distribuiti in posizioni ben diverse per consentirgli di distinguere da quale di essi riceveva lo stimolo.




Grazie a quel sistema, potevo inviare alla mia cavalcatura alata l'ordine di eseguire manovre anche complesse, secondo un codice che mi era stato fatto imparare a memoria. I singoli comandi erano di per sé semplici: salire o scendere di quota, deviare a destra o a sinistra, e aumentare e diminuire la velocità. Ma, combinandoli a due o tre alla volta, era possibile far compiere al grifone manovre più complicate senza che, se era stato ben allenato, avesse neppure un'esitazione nell'intenderle. Oltre a ciò era in grado d'interpretare il significato di ordini gridati a voce, seppure unicamente dal tono, un po' con l'intuito che può avere un cane o un cavallo nell'udire la voce del padrone.




In quanto al fulmine d'energia emesso dal pungolo, sapevo che ben di rado era necessario ricorrervi. Poteva capitare che in una situazione drammatica il grifone fosse così sconvolto da ignorare gli ordini, nel qual caso un colpo di pungolo otteneva di farlo dirigere dalla parte opposta a quella in cui sentiva il dolore. Il sistema era tuttavia impreciso, perché provocava nella bestia reazioni fisiche scattanti e violente; inoltre, ad usarlo troppo, accadeva che il volatile perdesse la sensibilità e ne ignorasse l'effetto, cosa che poteva risultare pericolosa.




Appena fui saldo in sella, diedi uno strappetto all'anello tirando le redini tutte insieme, e fra spaurito ed esilarato, avvertii il contraccolpo del possente movimento alare con cui il grifone si levò in volo. Per un minuto buono trattenni il fiato: la sensazione che provavo era indescrivibile. Neppure un pilota d'elicottero potrebbe capire cosa sia il fatto di volare, quando ciò avviene in groppa ad una creatura viva.




Sotto di me la Città delle Torri s'allontanò pian piano, e presto mi apparve come un modellino costruito con migliaia di cilindri di plastica multicolore, appoggiato nella verde conca fra le colline. L'unico rumore era quello delle grandi ali che remigavano nel vento. Girai lo sguardo e scorsi Olde Tarl, un po' più indietro e in basso rispetto a me. Stava incitando il suo grifone a salire e, dopo cinque minuti, riuscì a portarsi alla mia stessa altezza.




«Ehi, ragazzo!», gridò, seccato. «Che accidenti vuoi fare? Stai cercando di raggiungere una delle lune?»




Io risi; però, notando a che distanza era il suolo, dovetti dargli ragione. Le magnifiche ali del mio grifone nero battevano velocemente ma producevano un fruscio molto meno udibile, e nelle orecchie sentivo l'occlusione caratteristica degli sbalzi di pressione. A quell'altezza l'aria era già molto più rarefatta di quanto lo sarebbe stata sulla Terra. Il panorama, stupendo, dava l'impressione d'incurvarsi all'orizzonte.




In quel momento, miriadi di puntolini colorati presero a danzarmi davanti agli occhi, e tutto divenne evanescente. Per fortuna, prima di perdere i sensi, ebbi la forza di strattonare la quarta redine, quella verde, e il grifone si gettò in picchiata con una velocità che contribuì a riempirmi i polmoni d'ossigeno. La mente misi schiarì, ed il rapace emise uno stridio di scontentezza per esser stato costretto a salire fin quasi al limite delle sue capacità respiratorie.




Circa duemila metri più in basso, lo feci mettere in volo orizzontale e, con un tocco alla redine bianca, gli ordinai di rallentare. Le ali continuarono a remigare nell'aria con colpi lenti e potenti, talvolta restando aperte in lunghe planate quando da sotto saliva una buona corrente ascensionale, poi, cercando con gli occhi la città, la vidi lontana una ventina di chilometri. Poco dopo, Olde Tarl passò in testa e mi fece un cenno un po' derisorio.




«Ehi, pivello! Te la senti di fare una corsa?», mi sfidò.




«Dieci denari d'argento che Horus si mangia vivo il tuo gallinaccio verde!», esclamai io.




Lì per lì avevo deciso di chiamare il mio volatile col nome del Dio Egizio dalla testa di rapace. Olde Tarl incitò il suo grifone, che s'abbassò di quota ed accelerò verso la città velata dalle brume, ed io rimasi indietro cercando di rammentare gli ordini più adeguati mentre lo vedevo allontanarsi sempre più. M'ero accordo che il mio istruttore usava anche comandi vocali, e che il suo uccello rispondeva ad essi meglio che alle redini. La sua pratica lo poneva in una posizione di vantaggio piuttosto irritante. Cominciai a gridare anch'io, sia in goreano che in inglese:




«Har-ta! Har-ta! Più svelto! Più svelto!»




Hurus parve comprendere la mia volontà deducendola dal tono incalzante, o forse fu solo una sua naturale reazione competitiva verso l'altro grifone, fatto sta che allungò il collo e si gettò all'inseguimento con tutta l'energia delle sue ali nere. Era una massa di muscoli che sotto le mie gambe si torcevano come fasci d'acciaio, un fulmine che saettava stridendo nel cielo terso e, quando fu lanciato, compresi che faceva davvero onore al nome della divinità egiziana che gli avevo imposto.




Per offrire meno resistenza all'aria fui costretto a piegarmi tutto in avanti. Dopo due minuti sorpassai Olde Tarl come se il suo grifone fosse fermo, e risposi con un grido di trionfo alla sua imprecazione stupefatta. Arrivai in città con un buon vantaggio, poi scesi di quota e portai il volatile ad atterrare sulla stessa torre da cui eravamo partiti.




«Per la barba di tutti i Re-Sacerdoti!», sbottò Olde Tarl dopo che si fu anch'egli posato sul tetto. «Quello che hai fra le gambe è davvero un Fratello del Vento, ragazzo mio!»




Smontammo e rispedimmo i due grifoni ai loro covili nella periferia, quindi tornammo di nuovo nella mia camera. Il biondo guerriero era rimasto colpito dalla facilità con cui l'avevo oltrepassato.




«Che demonio nero!», ripete più volte. «Un vero grifone da battaglia, se mai ne ho visto uno. Tuo padre mi aveva detto che ti stava facendo preparare un animale di razza, ma non immaginavo che fosse di quella classe. Fin'ora nessuno era riuscito a battere il mio Beccodiferro, almeno sulle brevi distanze.»




«Preparato apposta per me?», borbottai. «Ma se appena mi ha visto ha cercato di farmi a pezzi, maledizione! Si può sapere che razza di addestramento gli hanno dato?»




«Ti assicuro che è stato preparato in modo perfetto,» protestò energicamente lui. «La naturale ferocia del grifone non viene mai inibita, in quelli destinati alla battaglia. È stato addestrato così a bella posta, proprio per essere ostile e selvaggio con tutti salvo che col suo grifoniere. Ovviamente, per una bestiaccia di quel genere, occorre un grifoniere forte, che lo sappia piegare. Credo proprio che tu abbia saputo fargli vedere chi è il padrone, sul serio.» Mi fissò, annuendo più volte, poi riprese: «Finché lo dominerai con mano ferma ti ubbidirà ciecamente. Lassù nel cielo sarete una cosa sola, e dovete imparare a conoscervi abbastanza bene per essere un corpo e un'anima anche in battaglia, dove l'intesa perfetta sarà vitale per entrambi. Però non rilassarti mai, costringilo sempre a sentire il peso della tua autorità se vuoi che ti rispetti. Quello non è un cane o un cavallo terrestre, che puoi addomesticare con una carezza: è una tigre del cielo. Se perde il rispetto per te, se ti sente più debole di lui, potrebbe cercare di ucciderti.»




«Terrò sempre pronto questo,» dissi, battendo una mano sul pungolo.




Olde Tarl si rilassò. «Non scordarlo mai. Tuo padre ed io non eravamo troppo sicuri che ce l'avresti fatta, ragazzo. Forse sarebbe stato più saggio farti addestrare un po' con qualche vecchio grifone più docile, ma il tempo stringe. Per fortuna è andata bene. Adesso hai messo il tuo marchio su un vero grifone, e adesso so che il sangue non è acqua. Nelle tue vene scorre proprio quello di tuo padre, il mio vecchio Capo di Guerra, una volta Tiranno e adesso Ordinatore di Ko-ro-ba, la Città delle Torri!»




Ci misi cinque minuti buoni prima d'assimilare per intero il significato di quelle parole. Fino a quel momento non so bene cos'avevo pensato di mio padre, ma non certo che fosse stato un Capo di Guerra o addirittura un Tiranno, né che attualmente ricoprisse nientemeno che la carica di Ordinatore. Altra cosa che sentivo per la prima volta era il nome di Ko-ro-ba, che in lingua goreana antica era il nome dato a certi piccoli villaggi creati a scopo commerciale.




Più tardi venni a sapere che tutti i centri abitati di grosse dimensioni vengono familiarmente chiamati Città delle Torri dai propri abitanti, mentre hanno un nome singolo che viene usato assai più di rado. Questa è una bizzarra abitudine dei Goreani, e la si ritrova anche in altri aspetti della società, ad esempio nella ritrosia con cui i membri delle Caste Basse rivelano il loro nome di battesimo preferendo far uso di un soprannome con gli estranei e perfino con gli amici non troppo intimi.




Fra il popolo era diffusa la credenza che rivelare il proprio nome di battesimo fosse pericoloso, in quanto Streghe e Stregoni avrebbero potuto usarlo in qualche pratica di Magia Nera. L'idea era stata probabilmente importata dalla Terra. Ma se pensate che sia un'idiozia, provate a riflettere sul perché voi stessi ritenete indesiderabile o addirittura offensivo che dei perfetti estranei vi chiamino col vostro nome di battesimo. È un'idiosincrasia che ha radici profonde anche nei Terrestri più evoluti, e queste radici affondano in usanze originate da timori superstiziosi, sopravvissute in forma diversa attraverso i millenni.




Su Gor tutti hanno due nomi, il secondo dei quali è ritenuto di uso innocuo per chiunque. Nelle Caste Alte la Negromanzia è considerata una stupidaggine; è tuttavia curioso notare come i popolani si ostinino a credere che gli individui di rango sociale superiore siano molto più superstiziosi di loro.




Olde Tarl ed io stavamo ancora chiacchierando quando, d'improvviso, si udì un forte sbatter d'ali all'esterno della torre. Prima che capissi cosa stava succedendo, uno spintone del mio istruttore mi mandò a ruzzolare in terra, poi ci fu un tonfo ed una freccia venne a spezzarsi in due contro il muro poco più in alto della mia testa.




Mi voltai sbalordito, ed ebbi la fugace visione di una scura massa pennuta in movimento fuori dalla finestrella, in groppa alla quale c'era un guerriero col volto seminascosto da un elmo. Il grifone fece per due volte il giro della torre, ed altri due strali vennero indirizzati nella mia camera senza far altro danno che perforare un manoscritto appartenente a Torm.




Qualche momento più tardi vidi che dal cortile sottostante alcuni arcieri stavano prendendo di mira l'attentatore, e costui ci mise poco a capire che la sua iniziativa si stava mettendo male. S'allontanò in fretta e salì di quota, portando con sé tre o quattro strali conficcati nelle ali del suo rapace. Da sotto risuonarono insulti, grida e imprecazioni.




«Un membro della Casta degli Assassini, «borbottò Olde Tarl, seguendolo con lo sguardo. «Marlenus, il serpente che sta cercando di diventare Tiranno di Gor, ha saputo della tua esistenza.»




«Possa crepare!», ringhiai io. «chi è questo individuo?»




«Lo saprai domattina,» rispose lui. Mi fissò accigliato. «E saprai anche perché sei stato portato su Cor.»




«E perché non posso esserne informato adesso?»




«Non avere fretta, ragazzo. Nel frattempo, prima che l'alba di domani ci richiami al dovere, abbiamo tutta la notte davanti a noi.»




«La notte? E per far cosa?»




«Non so te, amico, ma io mi prenderò una bella sbornia e cercherò di arraffare qualche femmina. Ecco quello che farò!»









Il mattino successivo mi svegliai poco prima dell'alba e cercai a tentoni l'interruttore del letto. Si trattava di un'altra piccola meraviglia dell'elettronica, un po' anacronistica fra quelle medievali pareti di pietra, ma l'avevo accettata con gratitudine.




Il robustissimo involucro di plastica che ricopriva il letto come un tettuccio si aprì, ed il condizionatore d'aria si spense. Quel congegno era garantito per evitare gli attentati notturni, ma io lo usavo più che altro come una sorta di sveglia, regolandolo per congelarmi bruscamente all'ora prestabilita. La caduta di temperatura fin presso lo zero mi spingeva a levarmi dal letto volente o nolente, e contribuiva a schiarirmi il cervello, ma continuavo a sognare una vita in cui non fosse necessario abbandonare il calduccio delle coltri prima delle undici di mattina, ora questa che consideravo ideale per ciabattare alla ricerca di una tazza di caffè forte. Sventuratamente, su Gor la gente andava a letto presto, e tutti trovavano naturale il fatto di alzarsi all'alba. Dal cortile esterno provenivano i tonfi di qualche lancia contro un bersaglio, segno che alcuni dannati fanatici erano usciti a respirare la nebbia ancor prima degli altri.




Faceva freddo. Immersi con riluttanza due dita in una bacinella d'acqua gelida e me le passai sugli occhi una volta sola, dopodiché mi affrettai a cercare l'asciugamano. Solo allora m'accorsi che i movimenti troppo rapidi mi facevano sbattere dolorosamente il cervello nelle pareti della scatola cranica. Il vino della sera prima stava compiendo la seconda e indesiderata parte del suo effetto.




Ricordavo ben poco di quanto avevamo fatto Olde Tarl ed io dopo il tramonto. Ero stato condotto ad esplorare una quantità di taverne e presentato ad osti dal grembiule bisunto, ad individui alticci o sordidamente ubriachi, a giovani cameriere seminude col collare da schiava e ad avventori di ogni Casta. Ovunque, l'atmosfera allegra ed i canti, spesso osceni, mi avevano incitato a quel gesto rituale che si compie sollevando il gomito, finché era venuto il momento in cui qualcuno aveva dovuto sollevare me da sotto un tavolo.




Non mi dispiaceva affatto. Avevo cantato vecchie canzoni terrestri in compagnia di un paio d'altri esuli del verde pianeta, e di costoro ricordavo solo che erano usciti ad ululare come coyote verso il firmamento dove la Terra era però del tutto impossibile da vedersi, anche se i nostri cuori nostalgici sapevano che era lassù ad ascoltarci. C'era poi stato un interludio su un ponte sospeso fra due torri, a trecento metri buoni di altezza, o così m'era parso, durante il quale rammentavo d'aver messo le mani addosso a una donna piuttosto recalcitrante.




Mi ripromisi di non assaggiare più il Pagar-so-tarna, un infernale intruglio abbreviato in«Paga» che Olde Tarl mandava giù come fosse stato acqua di fonte. Il suo nome significava, a mio avviso assai stupidamente, Padre dei Piaceri della Vita, mentre in realtà era diventato padre soltanto del peggior mal di capo che avessi mai avuto.




Alla mente mi tornarono vaghe immagini dell'ultima taverna che avevamo visitato, e che forse non era affatto una taverna: c'erano ragazze che ballavano praticamente nude nelle luci soffuse, aggirandosi flessuose e provocanti fra i tavoli ed assai poco veloci a scostarsi dalle mani che si allungavano a controllare la loro merce. Si trattava anche lì di schiave, ovvero di oggetti di piacere e, senza esserne del tutto certo, rammentai d'essermi trattenuto in privato con una di esse, una bruna flessuosa come una gatta.




Olde Tarl aveva tirato fuori i soldi per pagare il tutto, comprese le prestazioni della ragazza. Non ero per nulla soddisfatto di conservare memorie tanto confuse di quel che avevo fatto con lei. Mentre mi infilavo la tunica dalla testa, sentii che la porta si apriva. Era il mio istruttore d'armi, all'apparenza fresco come una rosa.




«Come va?», disse. «Tutto a posto? Muoviti. Sei atteso in Camera di Consiglio.»




Sapevo già che si trattava del luogo in cui i Consiglieri ed i maggiori rappresentanti delle Caste Alte tenevano le proprie riunioni. Era un locale posto all'ultimo piano della torre più alta, ed ogni città ne aveva uno di forma e di colore che per tradizione era uguale ovunque. Il soffitto, alto sei volte più di quelli normali, era dipinto come un firmamento stellato, e le pareti erano suddivise in cinque zone tinteggiate diversamente: bianca, blu, gialla, verde e rossa, ciascuna dedicata ad una delle Caste Alte.




I seggi erano disposti in semicerchio e su cinque livelli, più o meno come in un'Aula Magna, ed erano anch'essi opportunamente colorati. Al primo cerchio, il più basso e di colore bianco, sedevano i rappresentanti degli Adepti. Sui seggi blu, gialli, verdi e rossi, stavano nell'ordine gli Scrivani, gli Ingegneri, i Medici ed i Guerrieri. Notai che Torm, il quale m'aveva informato con assoluta noncuranza di aver diritto ad uno dei posti nella fila blu dei suoi colleghi, non c'era. La cosa non mi stupì, conoscendo la sua pigrizia ed il suo scarso interesse per le cose di governo. Se anche la nostra città fosse stata sotto assedio, dubito che Torm sarebbe riuscito a farci caso.




I seggi della Casta a cui sarei stato assegnato, quella dei guerrieri, erano gli ultimi in ordine di altezza e, per ragioni forse non solo puramente geometriche, anche i più numerosi.




Se fosse dipeso da me, non credo che avrei ammesso fra le Caste Alte quella dei rudi manovratori delle armi. Ma, del resto, i posti in prima fila erano quelli degli Adepti, i quali a mio avviso erano membri assolutamente inutili della società, a parte il discutibile merito d'ottenere dai Re-Sacerdoti l'uso delle loro apparecchiature sofisticate.




I posti erano già quasi tutti occupati. Al centro del piccolo anfiteatro, seduto su una poltrona severa ma non dissimile da un vero e proprio trono e vestito di una tunica marrone - il colore riservato a lui - c'era mio padre, l'Ordinatore di una città che lo aveva già visto come Capo di Guerra e Tiranno in altri tempi. Ai suoi piedi erano deposti un elmo, uno scudo, una spada con fodero e cinturone, ed una lancia da grifoniere. A quanto pareva, tutti quanti stavano aspettando solo il mio ingresso.




«Fatti avanti, Tarl Cabot,» disse mio padre.




Andai a fermarmi dinanzi al suo scranno, sentendomi addosso gli occhi di tutti i presenti. Olde Tarl mi si era affiancato, e si ergeva con aria impettita e una luce fiera negli occhi azzurri da vichingo. Notare che le straordinarie libagioni della sera precedente non avevano lasciato in lui alcuno strascico, mi seccò un poco. Si portò al petto un pugno chiuso e dichiarò ad alta voce:




«Io, Tarl, Capo delle Spade della città di Ko-ro-ba, giuro solennemente che l'uomo condotto alla presenza del Consiglio è degno di far parte della Casta dei Guerrieri!»




Mio padre rispose in tono rituale. «Non vi sono torri nella città di Ko-ro-ba più salde e immutabili della parola di Tarl, il Capo delle Spade. Io, Matthew Cabot, Ordinatore della città, credo al suo giuramento e domando il parere dei Consiglieri sul candidato.»




Si alzarono quindi gli Anziani di ciascuna casta, che ripeterono più o meno la stessa formula dichiarando ognuno il suo nome e il suo titolo. Quando tutti ebbero affermato di non avere nessun motivo per opporsi alla mia accettazione, mio padre mi fece accostare e provvide a vestirmi delle armi con le sue stesse mani. Il cinturone con la spada mi fu agganciato attraverso il petto, in modo che il fodero restasse dietro la schiena; al braccio sinistro m'infilò lo scudo; con la mano destra ricevetti la lancia e infine l'elmo mi calò intorno sulla testa. Quando fui così bardato, mio padre tornò a sedersi.




«Tarl Cabot, giuri tu di ubbidire fedelmente al codice della Casta dei Guerrieri?», domandò.




«Lo giuro,» dissi, annuendo.




«Tarl Cabot, quale sarà latua pietra della Casa?»




«La miaPietra della Casa è fin da ora quella antica e nobile della città di Ko-ro-ba,» risposi, sapendo che quella era la formula.




«Giuri solennemente di mettere il tuo onore, la tua spada e la tua vita al servizio della città di Ko-ro-ba?»




«Sì. Lo giuro solennemente.»




«Allora, Tarl Cabot», mio padre alzò la mano destra con gesto grave, «in virtù della mia autorità di Ordinatore, ed in presenza del Consiglio delle Caste Alte, io ti proclamo guerriero della nostra città ora e per sempre!»




La cerimonia era terminata con quella semplice affermazione, e mio padre sorrise. Mi tolsi l'elmetto, girandomi a fare un breve inchino di ringraziamento ai Consiglieri i quali stavano adesso applaudendo alla maniera goreana, cioè battendosi la mano destra contro la spalla sinistra. Nella fila più alta i miei nuovi compagni di Casta applaudivano con calore molto maggiore. Nessuno di essi era armato, in quanto la tradizione imponeva loro di lasciare le spade fuori dall'aula.




L'entusiasmo di quella gente mi rese perplesso. Non ci voleva un grande intuito a capire che erano fieri di me, che mi ammiravano genuinamente, ma non avevo la più pallida idea del motivo a cui quei sentimenti fossero dovuti. Ero sicurissimo di non aver fatto niente di più banale, almeno fino a quel momento, ed il sorriso con cui risposi all'ovazione si fece ben presto un po' rigido.




La riunione fu sciolta. Olde Tarl mi fece segno di seguirlo in un locale adiacente, assai più piccolo e arredato come un ufficio. Sul tavolo di marmo erano poggiate solo alcune carte geografiche. Mentre mi voltavo per vedere cosa aspettasse mio padre per raggiungerci, Olde Tarl mi diede di gomito. Aveva disteso una delle carte, e stava battendo un dito su di essa.




«Dai un'occhiata,» m'invitò. «Qui c'è la città di Ar. Per tradizione, e anche per motivi ora molto più pressanti, siamo nemici acerrimi, come forse sai. È la città di Marlenus, che si è autoproclamato Tiranno di Ar una dozzina di anni fa. Ogni progetto di quest'uomo è però teso a raggiungere il potere assoluto, e non sarà contento finché tutti non lo riveriranno come supremo Tiranno di Gor.»




«L'avevo già sentito dire. Ma questo cos'ha a vedere con me?»




Olde Tarl mi fissò dritto negli occhi. «Le armi che hai addosso ti sono state date per difenderti quando sarai sul tetto della torre di Marlenus, guerriero. E là che andrai. Ruberai laPietra della Casa di quella città e la porterai qui, nelle mani di tuo padre.»